Dopo dieci anni…

“Riprendo dopo quasi dieci anni questo blog.

E’ passato molto tempo dal 2014 a oggi: come in uno scenario manzoniano, c’è stato di mezzo il COVID, la guerra in Ucraina e a Gaza, la consapevolezza sempre più diffusa di un’emergenza ecologica e sociale, il presentimento inespresso e confuso di una catastrofe incombente (una pandemia ancora più grave in arrivo? un inquinamento inarrestabile? la guerra atomica? il caos generale?)…

Per quanto riguarda l’Italia, a tutto questo si aggiunge la crescente percezione degli effetti della denatalità, invecchiamento diffuso e palpabile (si vedono dappertutto non solo impiegati, ma anche pompieri, carabinieri e soldati sempre più canuti ed obesi!), mancanza di personale in tutti i settori (dall’industria manufatturiera, alla ristorazione, alla sanità pubblica), ma soprattutto la strisciante sensazione che alla base di tutto ci sia una sorta di “esaurimento culturale”, una perdita di rilevanza dei valori tradizionali dell'”italianità” di fronte alle nuove sfide imposte dai cambiamenti climatici, dall’informatica sempre più pervasiva, dall’intelligenza artificiale, dalla robotica…   

Anche nel mondo psichiatrico viene percepita una crisi progressivamente ingravescente: psichiatri e altri operatori sempre più rarefatti e isolati, perdita di collegamenti tra gruppi e servizi, crescente indifferenza tecnica per il nostro compito istituzionale, quello di migliorare le condizioni di vita dei pazienti (“ma se stanno meglio di noi, pensa qualcuno, immersi come sono nei loro deliri!…”). Altri si chiedono se ha senso cercare di capire i loro problemi e implementare le loro capacità di contatto con l’ambiente, quando siamo noi stessi che dobbiamo pensare a sopravvivere (moralmente, s’intende, almeno per il momento)? 

Ogni tanto, insomma, sembra proprio che niente più abbia senso.

Io, data l’età, avverto con particolare forza tutto questo e devo elaborare il sospetto che il mio lavoro di ricerca e sperimentazione più che cinquantennale, del quale in questo sito sono riportate le tracce, non solo non è capito o non interessa più a nessuno, ma è diventato obiettivamente… inutile, di fronte all’ampiezza e alla cogenza dei problemi generali.

Ma è vero tutto questo? 

Cerco di chiarire a me e a chi mi legge le risposte che mi sono dato, per sfuggire a uno stato d’animo che rischierebbe altrimenti di scivolare in una depressione senza via di uscita. 

Anzitutto è vero che la Cultura della Modernità (chiamiamola così, che risale al Rinascimento, ma le cui ultime espressioni sono internet e l’AI) è distruttiva di quelli che sono sempre stati considerati valori fondamentali. Mette in crisi cioè concetti come “Patria”, “Libertà”, “Fede”, “Religione”, “Partito”, “Democrazia”, “Famiglia”, “Amore”, ma anche quelli più recenti come “Scienza”, “Potere”, “Guadagno”, “Carriera” e decine di altri. Sono convinzioni che hanno riempito la vita e l’anima di decine e decine di generazioni di persone, al punto da essere considerate da molti in alternativa alla vita stessa. 

Ma, pensandoci bene, sono davvero valori degni di questo nome, in grado di resistere a una critica, solo di po’ più approfondita?

A mio avviso no. Vogliamo dire che sono tutte bufale? Mah… io direi proprio di sì. Semplicemente sono costruzioni che avevano qualche senso in contesti socio – culturali molto semplici, per non dire primitivi…, senza offesa per i veri “primitivi” che erano in realtà molto più saggi di noi. 

Oggi non più: la Cultura della Modernità fa piazza pulita di tutto, dimostrando che i “valori” non sono quello che si crede, ma qualcosa di altro, qualcosa di molto più “terra – terra”, se non banale. Qualcosa comunque per cui non vale la pena di immolare la propria vita. Non voglio dilungarmi in questa sede sui singoli temi, ma mi sentirei di farlo e l’ho già fatto in alcuni dei miei libri, come”L’agnello e la Scure” per quanto riguarda la ritualità e le sue derivazioni e “A letto con l’Evoluzione” per quanto riguarda la sessualità. 

Tale “cancellazione” dei valori stessi, fino a questo punto, è un’opera meritoria, anche se può portare (e porta molto diffusamente, soprattutto nei giovani) a forme di edonismo passivo e individualistico (vediamo tutti quotidianamente gruppi di ragazzini o addirittura coppiette di ventenni, che stanno assieme… ciascuno a smanettare sul proprio cellulare!), un edonismo (ammesso che si tratti di qualcosa di veramente piacevole) disincantato e quasi cinico. Se i “valori” sono tutti morti, molti non vedono perché debbano farsi trascinare fuori dal “meum particulare“, così rassicurante e, forse, gratificante, come un videogioco o un’escursione sui “social“, per andare a combattere per la Libertà, per la Patria, per la Chiesa o, più modernamente, per i profitti di una multinazionale…

La via di uscita che mi creo è pensare che si tratti di una fase di transizione, in cui la messa in discussione dei “Vecchi Valori” è già in atto, mentre i “Nuovi Valori” forse non ci sono ancora o forse non sono ancora riconosciuti.  

Bisogna aspettare che si formino o che vengano individuati come tali.

Come saranno?

Io non lo so, anche perché avranno delle caratteristiche molto diverse e non saranno, per definizione, né strutturati, né “dati” dall’esterno: dovranno formarsi all’interno di ciascuna persona. Saranno valori contemporaneamente meno concreti e meno astratti, capaci di guardare all’Umanità nel suo insieme, ma contemporaneamente a se stessi e al “Prossimo” nel senso evangelico del termine, cioè al vicino, per cercare di fare quello che di volta in volta va fatto per stare bene e far star bene gli altri. 

Qualcosa di non codificato e definito, ma variabile da caso a caso, in bilico tra istanze pubbliche e private, capaci di incorporare un certo “edonismo” (il voler star bene individualmente), ma di metterlo al servizio di quelli che si hanno intorno, senza la pesante mediazione da parte di enti e organizzazioni, come “chiese” e aziende, preoccupate solo di mantenere se stesse a scapito dei singoli.

Ciò dovrebbe creare un reticolo molto stretto e intricato, in grado di resistere sia alle spinte verso l’autismo e l'”idiozia” (nel senso etimologico greco di “centratura sul meum particulare“), sia alle richieste di alienazione da parte di un collettivo che non mai è veramente tale.

Il “Mondo Nuovo”, che in realtà è già in formazione, dovrebbe prendere corpo a partire da questi valori, basati non su feticci, su idee astratte e luoghi comuni, bensì sulla ricerca di una vera mediazione tra “pubblico” e “privato”. Per esempio: “mi interessa veramente diventare un leader e/o guadagnare un milione di Euro al mese? Se sì e se ne sono in grado, cercherò di farlo, serenamente e forse sarò contento, se resisterò ai rischi dell’alienazione (come “dare l’anima alla causa”… di una multinazionale). Se no, me ne starò nel mio orticello (o… in una botte come Diogene) e vivrò del poco che riuscirò a procurarmi, essendo egualmente contento, sempre che riesca a resistere ai rischi dell’autoreferenzialità e dell’implosione. 

Un mondo costituito tutto di persone siffatte è più difficilmente preda delle storture e delle assurdità che sono alla base dei gravissimi guasti ecologico – sociali, che ci affliggono.

La Cultura della Modernità è per sua natura adatta a rappresentare la “pars destruens” di questo processo.

Ma perché prenda corpo la “pars construens” ci vuole qualcos’altro… 

Non è per caso che, alla fine di tutto, questo qualcosa sia “Dio”, così come è scritto sulle monete da un dollaro (“In God we trust“)?!

Detto per inciso, sull’euro italiano c’è invece l’Uomo Vitruviano, cioè un personaggio in bilico tra il quadrilatero (= la società) e il cerchio (= la propria interiorità), che non riesce mai a far coincidere, se non inventandosi qualcosa di inedito, di immateriale…    

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Cosa rappresenta questo discorso per la mia vita di psichiatra ancora attivo?”

Lavorare sui confini

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Voglio occuparmi adesso dei “confini” del nostro lavoro, cioè di quella linea che delimita l’insieme di operazioni che chiamiamo “terapia”.

Inutile dire che si tratta di un problema alquanto arduo. Tant’è vero che molti (o quasi tutti?) preferiscono non porselo neanche! Con conseguenze disastrose, come è possibile verificare quotidianamente…
Cerco di spiegarmi meglio.
Confini di che cosa? Della terapia nei confronti della non-terapia, ovviamente, ammesso che siamo d’accordo su cosa si debba intendere per terapia!
A questo punto è necessaria un po’ di riflessione.
Qualcuno parla ancora di setting, un concetto che, introdotto in campo psichiatrico dalla Psicoanalisi, oggi, da parte di molti, viene capito con difficoltà. Io, pur essendo della generazione di quelli che ancora hanno dimestichezza col termine, lo ritengo, almeno stando a come è inteso di solito, fuorviante, perché lo sento come espressivo di una visione troppo debole, riduttiva, anche quando è relativo a forme di psicoterapia meno impegnative. Debole, perché richiama l’immagine di una cornice o, peggio, di una vetrina, oppure di un palcoscenico, cioè di qualcosa di statico, che non viene coinvolto più di tanto da ciò che avviene al suo interno.
In altri campi, il contenuto del setting è di solito un’opera d’arte, cioè un quadro o una rappresentazione teatrale, cioè l’oggetto principale del lavoro di un artista, di un pittore o di un regista. Colui che gestisce la cornice è invece un professionista diverso da colui che gestisce il contenuto, un tecnico che si occupa di luci, di colori e di materiali e solo secondariamente o indirettamente del prodotto artistico contenuto della cornice stessa.
Possiamo dire lo stesso di una terapia?
Io credo proprio di no.
Anzi, per quella paradossalità che è tipica del nostro lavoro, soprattutto quando si tratta dei pazienti psichiatrici più impegnativi, la cornice è al tempo stesso lo strumento del nostro lavoro, nonché l’oggetto principale della nostra attenzione…, tanto che possiamo dire che per noi il quadro è costituito proprio dalla cornice!
Si tratta di una cornice attiva, non passiva, che, con grande dispendio di energia, crea e mantiene nel tempo un ambiente diverso, qualitativamente diverso, da quello che la circonda. Un microcosmo in cui vigono, per tutti quelli che ci vivono, modalità di pensiero e di comportamento del tutto diverse da quelle che vigono fuori.
Più o meno come la membrana di una cellula, che non è una semplice “buccia”, ma un vero organo (forse il più complesso della cellula), che tiene separato (dinamicamente e con forza) quello che è proprio e peculiare della cellula stessa o comunque utile ad essa, da ciò che le è estraneo o ostile. Separato ma in continuo contatto, con scambi intensissimi (per quanto regolati) nei due sensi.
Vogliamo paragonarla alla parete di una camera iperbarica? di un sommergibile? della cabina pressurizzata di un aereo? Sono similitudini abbastanza pertinenti, accomunate dalla necessità (presente in tutti i casi suddetti) di evitare in ogni modo possibile delle aperture non controllate, che – non credo di esagerare – esporrebbero al rischio di vita uno o tutti gli abitanti del microcosmo che contiene.
In cosa consistono la peculiarità di questo particolarissimo ambiente?
Non si identificano con forme né di assistenza, né di deresponsabilizzazione, né di tolleranza alle anomalie comportamentali; non sono costituite da affettività gratuita, né da relazionalità forte, né da pedagogia dell’adattamento.
Non sono atteggiamenti di comprensione dei problemi e delle difficoltà, non sono terapia nel senso tradizionale e settoriale del termine (farmacologico, psicodinamico, cognitivo-comportamentale, ecc.), né inviti alla creatività e all’individuazione, né  normatività, né socializzazione guidata.
O, meglio, l’ambiente che noi creiamo contiene tutte queste cose e tante altre ancora, ma non si identifica solo con esse, soprattutto all’inizio del trattamento.
Quello che, nella sua essenza, fa la terapia è un’insieme di particolari accorgimenti, chiamiamoli così, volti a confrontarsi con le difficoltà che i pazienti incontrano nella mentalizzazione del mondo e di se stessi, nella prospettiva attuale o futura di ripristinare con loro una qualche forma di rapporto.
Si cerca insomma di creare le premesse per rendere possibili dei contatti puntiformi o qualche forma embrionale di relazione, con lo scopo finale di riportare all’interno dell’umana convivenza persone, che, a causa della malattia (ma anche, in certa misura, per propria “scelta”!) tenderebbero a restarne fuori, vivendo isolati dagli altri e a livelli di maggiore o minore sub-umanità.
Molti di questi “accorgimenti” sono già stati oggetto di queste pagine e non vorrei soffermarmici in questo momento.
Essi riguardano per esempio:

  • la gestione del consenso,
  • l’attenzione a tutto ciò che costituisce una forme di limite,
  • un adeguato livello di protezione/stimolazione,
  • modalità espressive e anche linguistiche particolari, come trasparenza, concretezza, assenza di doppi messaggi, ecc.,
  • un’adeguata opera di definizione dei problemi, degli oggetti, dei rapporti, degli stati d’animo,
  • una particolare amministrazione dello spazio,
  • una corretta circolazione ed elaborazione delle informazioni all’interno del gruppo curante,
  • la struttura e la vita interna del gruppo curante stesso,
  • l’impianto terapeutico.

Ce ne sono molti altri, tutti collegati in base a una precisa logica interna e a una coerenza, che, nel loro insieme, mantengono un ambiente comunicativo peculiare e unico, in grado di aggirare/supportare/vicariare/stimolare le particolarissime esigenze espressive e recettive dei pazienti e di creare le premesse per un funzionamento mentale accettabile, base di processi come comunicazione, condivisione, consapevolezza, ecc..
Basta poco, però, per indebolire o azzerare le caratteristiche di tale delicatissimo eco-sistema.
Dipende dal funzionamento, appunto, della “membrana”, che non è, come dicevo, una buccia o una copertina, ma un organismo vivo e attivo (molto attivo) e non può permettersi di avere crepe o aree di malfunzionamento, senza creare gravi problemi a chi si muove nel suo interno.
Ciò che per noi costituisce la falla, è una sospensione parziale, settoriale e, quando va bene, transitoria, delle regole di funzionamento su accennate, sospensione che abbassa più o meno drasticamente il livello di funzionamento dell’ambiente terapeutico. Le persone (pazienti o operatori) più sensibili lo sentono subito e si attivano in senso patologico: ne conseguono, da parte dei pazienti, agìti, aggravamenti clinici, necessità di ricovero; mentre da parte degli operatori si alimentano spaccature, litigiosità, collusioni perverse, sinistrosità e morbilità anomale, ecc.
Qualche esempio di “falla”?
Ce ne sono tanti e partono di solito da una cattiva coesione o una mancata concordanza di obiettivi tra operatori (interni e/o esterni), da un rapporto non soddisfacente con qualche famigliare o inviante, da qualche evento esterno (magari amministrativo o finanziario), mal assorbito dai curanti.
Di solito al centro o all’origine della falla si trova una persona (operatore, famigliare, cooperatore esterno…), più disturbata della media, che, di fronte a una sollecitazione un po’ più forte, si mette a funzionare peggio del solito, producendo non psicosi, ma tolleranza anomala per realtà patologiche, rigidità, ambiguità di comunicazione, fantasie velleitarie e irrealistiche, abbassamento del livello di critica… Su questa base si creano alleanze speciali ed improprie tra operatori, pazienti, famigliari di pazienti, colleghi interni ed esterni… che danno vita ad un meccanismo contagioso o a cascata che corrompe progressivamente un determinato ambiente…
La persona che ha messo in moto questo problemi (o che li rende evidenti) ne sembra il colpevole. Ma non lo è. La “colpa”, ammesso che ci sia, è del gruppo nel suo insieme e dei suoi membri più responsabili che non prevengono questi fenomeni e che magari non li percepiscono neanche. Le persone più fragili sono quelle che avvertono prima e di più l’inquinamento ambientale, come i canarini nelle miniere sono i primi che sentono la fuga di grisù. Gli altri vanno avanti come se niente fosse…
Finché, un giorno, non succede qualcosa di visibile (e talvolta di duramente tangibile): i sintomi clinici di qualche paziente si riacutizzano e devono essere riscontrati e tamponati con farmaci, contenimenti, ricoveri, ecc..
Bisogna essere consapevoli quindi che le manifestazioni più evidenti (i sintomi dei pazienti e i comportamenti dissonanti di alcuni operatori) sono solo la conseguenza e la copertura delle vere cause, le cui radici vanno cercate altrove, in lacune nella conduzione, del caso specifico, come di altri casi: per esempio una trasgressione alle regole di comunicazione trasparente e univoca, o una carenza non esplicitata di condivisione, di coordinamento e di coesione tra curanti. E sappiamo che ambiguità e non detti dei curanti, mancato mantenimento della parola data e simili, vengono monitorati con estrema attenzione da parte dei pazienti e giustamente considerati indicatori di affidabilità dei terapeuti e quindi della loro capacità professionale di far fronte alle proprie esigenze esistenziali.
Sappiamo tutti comunque che nel nostro campo “cause” e “conseguenze” si alternano, si intersecano e, per così dire, giocano a rimpiattino tra di loro.
Spesso si tratta di un famigliare o di un curante esterno, che “rema contro” senza darlo a vedere, che “non vede” (cioè, detto più correttamente, nega, per proprie ragioni insondabili…) i problemi del paziente, non condivide il progetto o il metodo terapeutico o “non ne capisce” le ragioni, ma non lo dice. Spesso coinvolge altri e induce anche loro a mettere il bastone tra le ruote, a boicottare occultamente…
In tutti questi casi e in molte altre situazioni simili, non è mai il dissenso o la divergenza di opinione la causa della falla, come non lo è la debolezza o l’impotenza obiettiva dei curanti, ma il modo in cui vengono gestiti, a riprova del fatto che la terapia dei pazienti psichiatrici è soprattutto una questione di strutture portanti e di forme, prima che di contenuti.
Creare la cornice dell’intervento psichiatrico è compito quotidiano di tutti gli operatori.
Cercare le falle è invece un compito precipuo dei membri più consapevoli del gruppo di lavoro, che, per farlo, devono trasformarsi in detective, anzi in veri e propri “cani-poliziotto”, dato il dispiego che il compito richiede di attitudini non convenzionali, quali astuzia, intuito, fiuto, nella ricerca di tracce poco evidenti, come si conviene a situazioni che, per definizione, sono occulte e non-verbalizzate.
La casistica delle “falle” e soprattutto la disamina dei possibili rimedi saranno oggetto della prossima puntata.

 

www.giandomenicomontinari.it

Piccolo è bello?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Quali sono le “giuste” dimensioni di una struttura psichiatrica?
E’ un altro tema fonte di equivoci e malintesi.
Negli anni 70-80, nel periodo più caldo della chiusura dei manicomi, molti furono indotti a pensare che “piccolo è bello”, secondo un ragionamento siffatto: gli ospedali psichiatrici sono diventati quello che sappiamo, perché si sono dilatati a dismisura. La ricetta migliore per non incorrere nei disastri della manicomializzazione è cercare di evitare qualunque mediazione istituzionale oppure creare unità piccole o piccolissime (per es. comunità di cinque o sei ospiti con tre o quattro operatori).
E’ una convinzione che molti hanno tuttora, ma è una convinzione basata su premesse sbagliate.
La “manicomializzazione” della realtà istituzionale dipende da ben altri fattori, connessi, sì, con le dimensioni dell’istituzione di cura, ma sulla base di considerazioni molto più complesse.

Abbiamo visto che lavorare con la psicosi vuol dire prima di tutto affrontare (anzi assumere su di sé) il grave problema della trasmissione delle informazioni e dell’intenzionalità tra livelli diversi di elaborazione e integrazione, cioè tra chi è a contatto diretto con i pazienti (operatori, medici, infermieri), chi riflette su ciò che succede (gli stessi, durante il lavoro di équipe, supervisori, psicoterapeuti nelle sedute) e chi elabora le strategie e decide (direzione, servizi invianti).
Si può dire che il problema della (notoriamente cattiva) trasmissione delle informazioni nel gruppo di lavoro psichiatrico e tra gruppi o persone funzionalmente collegati sia il riflesso di quella che è la principale difficoltà del paziente psicotico: mentalizzare ciò che gli accade, ciò che sente al suo interno e ciò che gli arriva dall’ambiente e, in senso opposto, attuare quello che pensa, in maniera consequenziale e condivisa con chi lo circonda.
Insomma, se è vero che nella psicosi è precaria la rappresentazione e la progettazione autonoma della propria esistenza all’interno del contesto in cui la persona si trova, la cura dovrebbe essere, almeno idealmente, lo stimolo al ripristino di questa funzione, così come l’assistenza del paziente ne è il provvisorio vicariamento. Il tutto, partendo dai curanti stessi.
Fin qui siamo tutti, penso, d’accordo.
I problemi metodologici nascono dal come interferire costruttivamente nei processi patologici che sostengono la psicosi, perché ciò richiede una conoscenza abbastanza approfondita o almeno non ingenua delle modalità esperienziali dei pazienti, modalità che sappiamo essere molto particolari, forzatamente diverse da quelle vigenti fuori del loro contesto di vita.
Ingenuamente si potrebbe dire (e si dice) che i problemi di trasmissione delle informazioni possono essere risolti alla radice, riducendo i rimandi e gli snodi in cui il paziente si perde e anzi si aliena. E’ per questo motivo che egli dovrebbe essere tolto da una grande istituzione e affidato, se non a se stesso ad un operatore unico o a un piccolo gruppo, capace di compiere, con lui e/o al suo posto e in tempi reali, quelle operazioni che egli non è in grado di compiere.
Sembrano scelte razionali, ma non lo sono. Tant’è vero che, sul piano operativo, servono solo ad aumentare la confusione interna del paziente e i suoi vissuti patologici di onnipotenza/impotenza, mentre costituiscono la via maestra per portare una persona (l’operatore stesso, non il paziente) alla follia e sulla soglia del suicidio.
Ma è sul piano teorico che esistono i problemi più gravi. Tali visioni non tengono conto del fatto che la trasmissione delle informazioni, così come la mentalizzazione del mondo, sono precarie da parte dei pazienti, per la difficoltà che essi incontrano nello stabilire un “prima” e un “dopo”, un “qua” e un “là”, un “sopra” e un “sotto”, un “dentro” e un “fuori” e quindi nel costruire quelle coordinate dell’esperienza, indispensabili per organizzare e dare un senso a ciò che si pensa, e quindi a quello che andrebbe detto o non detto, fatto o non fatto.
La loro inerzia ne è una delle principali conseguenze: non è “pigrizia”, ma la conseguenza del fatto che il “fare” non viene concepito come un’operazione significativa rispetto al “non-fare” e viceversa. “Perché devo fare una cosa che per me, semplicemente… non esiste? Perché devo spostarmi da qua a là, se “qua” e “là” sono la stessa cosa?” è il ragionamento che i pazienti sembrano fare di fronte a certi compiti o comportamenti, richiesti dal mondo circostante, ma da loro non mentalizzati e quindi incomprensibili, anzi inesistenti. Come dare loro torto? Sarebbe “dei matti” se facessero il contrario!
Assenza di limiti, assenza di significati e inerzia, realtà tra loro variamente collegate, sono tra i principali fenomeni che stanno alla base dell’esperienza psicotica. Le cose non assumono significato, perché è debole nei pazienti la capacità di scorporarle dal contesto, definirle, individuarle, inscriverle in una cornice che permetta di vederle nella loro peculiarità, cioè di “leggerle”.
In tale ambiente mentale, tutto tende ad essere in contatto con tutto e a trapassare nel contesto, mentre, contemporaneamente, alcuni contenuti importanti sono esclusi senza un criterio razionale. Avendo difficoltà a compiere corrette operazioni di scomposizione e accostamento di elementi, i pazienti danno vita a processi di inclusione ed esclusione impropri, arbitrari. Per fare un esempio, un gregge di pecore è visto come una chiazza bianca con qualche zoccolo, non come un insieme organico e coerente di singole pecore.
Il che porta, a lungo andare, a costruirsi una visione sempre più confusa delle cose, alimentando un circuito vizioso.
I pazienti hanno perciò bisogno che qualcuno li aiuti a fare ciò che essi hanno difficoltà a fare: separare, definire, limitare, scindere, identificare, chiarire ciò che è confuso, insieme alle operazioni opposte: integrare, accorpare, accostare, entrare in contatto con elementi che essi tenderebbero a scindere senza senso e ad espellere dalla loro esperienza.
Tale aiuto deve essere dato non attraverso discorsi o operazioni intellettuali, ma attraverso cose, azioni, oggetti intermediari tratti dalla quotidianità, dalla corporeità e dalla convivenza. Far fare (magari forzosamente) la doccia è un bel modo per aiutare a distinguere lo sporco dalla propria pelle, che il paziente tenderebbe in molti casi a considerare una realtà unica! Fare una cosa o fare l’altra, interrompere il non-fare con un’attività preordinata ed eterodiretta, aiutare/costringere a riconoscere e a denominare realtà interiori, come sentimenti, nozioni e immagini, sbiadite e confuse, sono alcuni degli infiniti modi per lavorare efficacemente su questa che è la difficoltà specifica dei pazienti psichiatrici.
Possiamo chiamare tutto questo “lavoro sui limiti”, perché la cattiva percezione del limite è il denominatore comune a tutte le operazioni più problematiche.
La peculiarità di tale lavoro è data dal fatto che deve essere condotto con modalità concrete e tangibili e deve avvenire nel gruppo stesso e nella sua struttura, prima che nel paziente, sia perché il gruppo è a sua volta sofferente, sia perché ha il compito di capire e far capire le cose con azioni parlanti (per citare Racamier), a chi non è a suo agio con simboli, metafore e astrazioni.
E’ necessario che il gruppo faccia suoi i problemi di difficoltosa mentalizzazione del paziente (e a questo riguardo non ci sono problemi!) e che ne avvii su di sé la soluzione, attraverso un lavoro sui limiti svolto al proprio interno.

E’ evidente come il lavoro sui limiti sia facilitato dalla distanza, dal numero e dalla varietà delle persone e quindi dalle dimensioni della struttura. La soluzione uno a uno, così come un gruppo di cinque – sei – otto persone (tra pazienti e operatori), non è assolutamente in grado di resistere alle spinte centripete verso l’omologazione, la sdifferenziazione, la globalizzazione dell’esperienza e quindi verso la perdita di senso e la conseguente stasi.
Le istituzioni terapeutiche devono anzitutto… esistere (cioè essere strumenti di frapposizione e quindi di limitazione tra gli individui), poi essere grandi e aperte. Ma grandezza e apertura colludono con le spinte di tipo centrifugo e scissionale (altrettanto forti nei pazienti) e fanno perdere la concreta visibilità del processo di elaborazione dell’esperienza, come fenomeno sintetico e unitario della persona. Inoltre, nella pratica, vanno anche contro le necessità di assistenza e di protezione dei pazienti e possono rappresentare forme di omissione o di malpractice, dalle conseguenze talvolta estreme.

Bisogna trovare delle soluzioni che concilino tali esigenze opposte.
Ci vuole una realtà abbastanza grande da permettere di lavorare sui limiti, essendo quindi in grado di albergare al proprio interno un “altrui” e un “altrove”, distanza e inaccessibilità tra ambiti diversi, variabilità tra una persona e l’altra e tra una funzione e l’altra; capace di alimentare scale di valori, regole impersonali, norme rispettate da tutti. Insomma che sia in condizioni di lavorare sulla cosa più necessaria per tentare di contenere e correggere l’esperienza psicotica.
E ci vuole una realtà abbastanza piccola da rendere immediato e concretamente visibile e assimilabile il processo di mentalizzazione delle esperienze, con un apice (il leader morale? l’animatore? il direttore? il supervisore?) vicino e presente, potenzialmente capace di capire, decidere e dare risposte senza ulteriori rimandi… ma senza aggirare o escludere la differenziazione interna del gruppo curante, indispensabile per garantire la mentalizzazione stessa, prima ancora che per riscontrare la frammentazione scomposta del mondo interno del paziente, contenerla e correggerla.

Una comunità di cinque o sei ospiti, con tre o quattro o cinque operatori ha ben poche probabilità, per esempio, di riuscire ad alimentare in un unico contesto gruppi e sottogruppi (di operatori e di pazienti) con interessi e responsabilità diverse: gruppo sportivo, gruppo teatrale, comitato regolamento, comitato gite, gruppo di discussione, ecc. In cui siano presenti approcci e opinioni diverse ma ricomposte, norme e regole impersonali di qualunque tipo. In cui ci sia spazio per i singoli e i loro vissuti psicotici, ma in cui si facciano esperienze di interruzione dei vissuti psicotici stessi e quindi di limitazione dell’autoreferenzialità esasperata.
E’ molto più probabile che una comunità piccola perda essa stessa qualunque residua forma di struttura, comprese le differenze tra “me” e “te”, “dentro” e “fuori”, ecc.
Inoltre, difficilmente una realtà piccola può permettersi un leader che condivida la vita e la prassi quotidiana di operatori ed ospiti senza restare totalmente impigliato in una palude di fusionalità senza limiti e quindi in una dimensione psicotica. Egli, essendo costretto a prenderne le distanze, diventa inevitabilmente estraneo (vissuto addirittura come ostile!), quindi tale da interrompere la catena decisionale, anzi da non permetterne neanche l’esistenza.
Per tentare di venire a capo di queste difficoltà ci vuole un’istituzione grande. Ma in un’istituzione grande la distanza, il limite, le regole (ammesso che ci siano!) non sono controllate e giocate terapeuticamente. Sono obiettive e reali (e spesso ottuse)! Non solo non sono utilizzabili per rimettere in moto dei processi mentali assopiti, ma tendono anzi a favorirli.
Inoltre anche l’istituzione grande moltiplica e rende insolubili i problemi di gestione delle informazioni, perché allunga la catena decisionale, con gli stessi risultati finali dell’istituzione troppo piccola: diventa un organismo che non elabora le informazioni, che non capisce, non si muove e non cambia, perfettamente attrezzato per colludere, anzi, per identificarsi con la passività della psicosi.
In ogni caso viene presentato al paziente un contenitore di terapia “acefalo”, che non sa o non vuole né capire né decidere. Non è un bel modello identificativo per chi ha proprio in questo il suo problema fondamentale!
Teniamo presente che queste carenze e queste contraddizioni, che a noi sembrano irrilevanti o comunque non percepibili da parte dei pazienti, vengono invece avvertite da loro con estrema sensibilità e giudicate di conseguenza! Un solo episodio di discrepanza in questo ambito è sufficiente a bloccare qualunque ulteriore processo terapeutico.

Insomma il problema è teoricamente insolubile e rappresenta, se vogliamo, un risvolto, nonché una metafora dell’insolubilità della psicosi…
Ma è una sfida! qualcosa dobbiamo pur tentare!
Nella mia esperienza può funzionare al meglio un gruppo di venti-trenta-trentacinque pazienti, con quindici-venti operatori interni e una decina esterni (per lavori più discontinui o più specifici).
Gruppi più piccoli sono ingestibili, come ho già detto, anzi … inavvicinabili senza rischio personale! Di gruppi molto più grandi ho poca esperienza diretta, ma ritengo che finiscano per creare problemi analoghi o simmetrici, sui quali può diventare difficile lavorare.
Con queste dimensioni invece è possibile invece (purché lo si voglia!) tenere in equilibrio forze centrifughe e forze centripete, distanza e vicinanza, proprietà ed estraneità ecc. e quindi vicariare/supportare/facilitare quelle operazioni mentali, la cui carenza è alla base degli stili psicotici di pensiero e di comportamento.
Lavorare in altri modi non è impossibile. Ci mancherebbe altro! E qualcuno forse ci riesce. Ma è ancora più difficile!
Paganini riusciva a suonare il violino anche con una corda sola, ma se noi… non siamo Paganini, dobbiamo rassegnarci a cercare di capire sempre meglio certe peculiarità del nostro lavoro e a tenerne conto nella quotidianità.

Quale supervisione?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Il tema della supervisione è connesso con quello della diagnosi, perché riguarda le modalità con cui l’immagine del paziente si forma e viene trasmessa ad altri professionisti della Salute Mentale, siano essi in veste di supervisori, di direttori, di consulenti, di colleghi con cui condividere la responsabilità della cura o semplicemente di persone esterne all’ambiente in cui si sviluppa la terapia.
E’, questo, un altro dei campi in cui tutte le carenze teoriche e le contraddizioni della nostra materia vengono impietosamente messe in evidenza, talvolta con conseguenze drammatiche.
Qual è il problema?
In tutti i rapporti umani lo scambio rapido di informazioni avviene attraverso operazioni, che coniugano nella maniera più rapida e sintetica possibile, alcuni dati obiettivi (tecnici, storici, quantitativi, ecc.) e notazioni di tipo “iconico” (quali impressioni, propri stati d’animo, emozioni, tratti di tipo pittorico, ecc.) attorno a un determinato contenuto.
Un mix sapiente di questi ingredienti crea di volta in volta il prodotto più efficace per scambiare e ricevere in tempi utili, tra poche o molte persone, una grande quantità di informazioni, dalle più importanti alle più banali. E’ quello che rende possibile la vita delle società complesse.
Quando però l’oggetto dello scambio di informazioni è una realtà psicotica, questo meccanismo comunicativo, inevitabilmente imperfetto, ma di solito efficiente, non funziona più, si inceppa…
Perché?
Perché non è possibile disegnare con poche pennellate espressive un quadro che sia esaustivo della realtà di un paziente psicotico, per il semplice motivo che la facciata che egli (a seconda delle circostanze e del momento) ci presenta è sempre, in un modo o nell’altro, parziale, internamente incoerente, scissa dal contesto comunicativo, e mutevole.
Insomma, il racchiudere tutto in un’immagine immediatamente accessibile è un’operazione semanticamente precaria, la quale, soprattutto, fa pervenire all’interlocutore ben pochi dei dati che interesserebbero ai fini della terapia.
Il tutto è aggravato dal fatto che quando il quadro clinico da costruire e da descrivere ad altri è particolarmente frammentario, confuso e indecifrabile, le persone (quelle non addette ai lavori, ma anche i professionisti del campo), invece di potenziare gli strumenti di osservazione e moltiplicare gli sforzi di lettura dei dati o, almeno, di sospendere il giudizio, si fanno un dovere di incrementare la dimensione integrativa del processo, quella che porta a completare con materiale interno l’obiettiva ambiguità dello stimolo.
Come una tavola di Rorschach, di per sé confusa e priva di un qualunque significato, diventa un “pipistrello”, così un quadro o un comportamento psicotico indefinibile e bizzarro, dato che la sua originaria, quasi “intenzionale” mancanza di senso è insopportabile ai più, non viene ricostruito come un puzzle o almeno lasciato nella sua indecifrabilità. Al contrario, viene caricato di significati estrinseci, di solito pertinenti all’osservatore stesso, cioè viene inconsapevolmente integrato e interpretato nella maniera più soggettiva e unilaterale possibile.
Si tratta di meccanismi ancestrali, regressivi e semplificanti, predisposti per gestire l’emergenza e la precarietà o la debolezza momentanea, meccanismi che per loro natura riducono la percezione dei dettagli, la riflessione, la complessità dell’interazione.
Si forma così un circolo vizioso tra cattiva comprensione della realtà in oggetto (lo stato del paziente, frammentato e incoerente) e produzione vicariante, da parte degli osservatori, di dati inesistenti e arbitrari, ancora più indecifrabili: un circolo vizioso che può avvitarsi fino a sfociare nel fallimento di qualunque comunicazione.
E’ in tal modo che la psicosi, intesa come naufragio della relazione, si trasforma da virtuale in reale e coinvolge pesantemente tutte le persone interessate. Vogliamo chiamare questo processo “contagio”? e il risultato che ne consegue “psicosi indotta”?

Orbene, quando un gruppo, in stato di “normale” sofferenza istituzionale, deve relazionare sul suo operato a un professionista, che non ha contatto diretto col paziente, che non condivide col gruppo stesso la vita, la quotidianità e gli strumenti del lavoro, la trasmissione delle informazioni diventa del tutto inaffidabile. Succede cioè che i dati osservabili, già all’origine parziali e monchi, vengano ulteriormente impoveriti e distorti con l’aggiunta di emozioni improprie e non pertinenti (comprese quelle generate nel gruppo dalla presenza del professionista stesso, non capito, non integrato al proprio interno e sentito piuttosto come un corpo estraneo, dagli attributi più o meno persecutori) e perdano completamente di significatività.
In base a descrizioni di questo tipo, cosa potrà capire il direttore / consulente / supervisore / collega esterno dello stato attuale e delle possibili prospettive future del paziente? Poco o niente.
Eppure è su questa base che vengono prese molte decisioni, anche importanti sulla vita del paziente stesso e sull’operatività del gruppo.
La cattiva o pessima circolazione delle informazioni in senso verticale (cioè tra operatori che agiscono a livelli di lettura, programmazione e responsabilità diversi) è uno dei principali punti deboli di quasi tutte le istituzioni psichiatriche, soprattutto quando le dimensioni delle strutture vanno oltre certi limiti. Le informazioni importanti (per loro natura spesso “occultate”, come ho detto, e distorte dal paziente già all’origine) vengono mal rilevate dagli operatori di prima linea e trasmesse ai livelli superiori con ulteriori, pesanti distorsioni.
Inevitabile quindi che, da parte degli operatori di base, le analisi, le indicazioni e le strategie terapeutiche “discendenti” dalla direzione o dall’équipe responsabile vengano percepite come lontane, schematiche, astratte, se non addirittura cervellotiche. E tali spesso sono veramente, perché vengono elaborate sulla base dei meccanismi su accennati e quindi ulteriormente distorte, col risultato finale di rendere l’atmosfera dell’istituzione irrespirabile.

Che fare?

Anzitutto acquisire una solida consapevolezza di quanto detto fin qui e convincersi che, nel contatto con la psicosi, la produzione e la circolazione delle informazioni è un problema grave, che non può essere gestito nella maniera disinvolta e superficiale, che viene adottata di solito.
E’ un problema talmente grave da diventare prioritario e da richiedere importanti modificazioni strutturali nell’organizzazione di un gruppo di lavoro psichiatrico. Molte altre mancate precauzioni, come pure le consuete “scorrettezze metodologiche”, al confronto, si configurano come venialità.
Gli strumenti per contenere il fenomeno sono vari. Ne cito un paio, di quelli che io adotto normalmente:

– Moltiplicare i punti di vista e gli approcci alla realtà dei pazienti. Contrastando la tendenza ingenua e non professionale a ridurre i canali comunicativi col paziente psicotico, bisogna invece moltiplicarli e renderli disomogenei: coinvolgere molte persone, in situazioni diverse, con strumenti differenti (per es. approcci verbali e non-verbali nello stesso contesto), con filosofie anche divergenti, cambiamenti frequenti. Il gruppo curante deve incorporare al proprio interno la frammentazione strutturale e l’incongruenza semantica tipiche della malattia psichica e gestirle consapevolmente. L’assurdità (apparente) che ne consegue diventa strumento di contatto col paziente.

– Accorciare, anzi, tendenzialmente azzerare la distanza tra livelli di lettura e di decisionalità diversi. Non deve esistere un direttore o un’équipe di coordinamento o un supervisore o un consulente che non conosca a fondo e non condivida la realtà e il punto di vista degli operatori di prima linea. In pratica bisogna che il livello più alto, almeno in una certa misura, “si sporchi le mani” con la quotidianità e che, per contro, gli operatori (e, nella misura in cui ne sono in grado, anche i pazienti stessi) abbiano un graduale accesso ai livelli di lettura e di decisione superiori.

E’ chiaro che queste due procedure confliggono totalmente con le esigenze opposte, altrettanto cogenti:
– quella di mantenere l’unità del gruppo di lavoro, nonostante e contro gli approcci frastagliati e divergenti;
– quella di limitare (se non proprio impedire) l’accesso a livelli di funzionamento superiori (letture complesse, decisioni sul caso, scelte strategiche riguardanti il gruppo stesso), quando non sono esercitabili correttamente da parte di pazienti e gruppi di lavoro in stato di sofferenza. Questa difficoltà, connessa alle modalità concrete di funzionamento del pensiero psicotico, giustifica l’esistenza di più livelli di elaborazione tangibilmente differenziati (cioè direttori, consulenti, ecc., operanti in altra sede e lontani), che devono restare difficilmente accessibili.

Le contraddizioni di questo approccio sono evidenti e fanno parte integrante del lavoro terapeutico, anzi sono il lavoro: trovare punti di equilibrio dinamici e compromessi sempre nuovi è ciò che può permettere di contenere la psicosi e che costituisce il principale fattore di protezione del paziente, percepito come tale dall’interessato.
E’ ciò a cui è finalizzata la terapia e ciò a cui servono i direttori / coordinatori / supervisori / consulenti di gruppi di lavoro psichiatrici: non dare letture o diagnosi o interpretazioni o direttive concrete, tutte operazioni molto esposte al rischio di essere inappropriate per carenza di dati reali, ma soprattutto non capite dalla base, perché recepite in maniera parziale, non mediata, dissonante.
Il compito di tali figure è invece quello di creare nel gruppo di lavoro e mantenere nel tempo un ambiente mentale che faciliti la formazione delle opinioni e delle decisioni, che saranno poi di pertinenza di ciascuno: l’operatore che, alle due di notte, è alle prese con un paziente agitato, violento o a rischio di suicidio deve decidere cosa fare: è lui il direttore sanitario e l’intera équipe. Deve farlo da solo e in tempi reali.
Perché le decisioni (e soprattutto la volontà/capacità decisionale) di tutti siano adeguate alle esigenze di ogni singolo momento (e devono esserlo!), bisogna che il paziente venga capito, grazie all’osservazione, per così dire, “multidimensionale” che ne viene continuamente fatta, destinata a formare nell’operatore un’immagine complessa, che lo metta in grado di leggere tra le righe e “dietro le righe” quello che succede.
Le figure apicali dunque indicano o testimoniano con la propria “presenza-assente” e “assenza-presente” dell’esistenza di livelli di funzionamento mentale diversi dall’immediata concretezza, livelli che il paziente e il gruppo di lavoro sono invitati a raggiungere, nei tempi e nei modi adeguati e quindi non subito, ma che devono invece essere posseduti ed esercitati subito in caso di necessità.
Non è proprio facilissimo, me ne rendo conto, ma non abbiamo molte alternative!

Quale diagnosi?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Vorrei affrontare quello che è forse il fenomeno più grave (e progressivamente ingravescente) che si riscontra nel nostro modo di gestire la Psichiatria: la sottovalutazione della psicosi.
Mi rendo conto che questo sospetto rischia di gettare un’ombra di incompetenza su tutti noi addetti ai lavori e sugli psichiatri in particolare: è come dire che un oculista non riconosce o addirittura non vede la cecità o che un fisico atomico ignora o non individua la radioattività…
Avrei voglia di allargare il discorso, come ho fatto in alcuni miei libri a contenuto antropologico e come sarebbe giusto, trattandosi di tematiche che travalicano i confini del mondo psichiatrico, ma in questa sede preferisco restare ancorato alla realtà quotidiana del nostro lavoro e cerco di spiegare concretamente cosa intendo.
Penso che capiti a tutti gli operatori di vedere pazienti chiaramente incapaci di gestire la propria vita, gravemente a disagio nel muoversi nel mondo, di gestire rapporti, attività, responsabilità, non per mancanza di intelligenza o di singole abilità, ma, diciamo così, per debolezza interna. Sono quei pazienti che, nei casi più gravi, abbandonano lavori, perdono contatti personali, si dedicano ad attività sempre più autocentrate, autoreferenziali e tendenzialmente autodistruttive, fino a ridursi a stare quasi sempre in casa, magari a letto, invertendo giorno e notte, a rimuginare su cose inesistenti, a litigare con la madre.
Ebbene, come vengono inquadrati questi fenomeni, spesso collegati a intensa sofferenza e gravemente invalidanti?
Non è raro, anzi è diventato quasi normale che la diagnosi in questi casi sia, alternativamente o in associazione, una delle seguenti: “fobia sociale” (perché il paziente non esce di casa), “attacchi di panico” (perché è angosciato di fronte a qualunque impegno esterno), “discontrollo degli impulsi” (perché picchia la madre), “disturbo bipolare” (perché in certi periodi è più cupo o più logorroico che in altri), “disturbo ossessivo compulsivo”(perché, stando a letto, conta le mosche che vede passare), “disturbi dell’alimentazione” (perché si ingozza in maniera disordinata e preferibilmente alle tre di notte) oppure, in mancanza di altro, “disturbo di personalità”, etichetta aggiuntiva che, giustamente, non si nega a nessuno (e neanche a ciascuno di noi, s’intende!).
Nei casi più leggeri avviene lo stesso, con la differenza che certe discrepanze (per non dire assurdità) sono meglio mascherate e talvolta diventano quasi credibili.

Perché succede questo, che rappresenta, a mio avviso, un uso perverso della diagnostica psichiatrica, volto a occultare i fenomeni, anziché a chiarirli?
Non mi addentro, ripeto, nelle cause profonde, di natura socioculturale e addirittura antropologica, capaci di inquinare la Psichiatria più che altri campi e cerco piuttosto di capire le motivazioni più immediate, che sono varie.
Alcune motivazioni sono palesi e nobili, seppure non sempre condivisibili, come per esempio l’istanza di non creare stigmi (soprattutto negli adolescenti e nei giovani), non traumatizzare oltre il necessario i famigliari, non dare gratuitamente patenti di “pazzo”, “incurabile” e simili.
Altre motivazioni sono pure comprensibili, ma meno limpide, come l’esigenza dei Servizi Psichiatrici di non farsi carico di nuove rette di degenza: un orientamento diagnostico “negazionista”, che permette di ridurre sulla carta i bisogni assistenziali e quindi di risolvere qualche problema di bilancio… Spesso funziona, almeno sul momento…
Altre esprimono un’impotenza (che in certe situazioni è obiettiva, lo sappiamo) dell’operatore: cosa cambia se la diagnosi è una o l’altra, quando poi quello che si può fare è poco o niente, al di là della prescrizione di qualche stabilizzatore e di qualche neurolettico?

Ma in molti altri casi la motivazione è purtroppo una sola: la realtà del paziente sottostante ai sintomi non viene ritenuta importante, anzi, addirittura, non viene rilevata!
E qui veniamo al dunque!
Cos’è che non viene visto e perché?
Il fatto che i sintomi, tutti i sintomi rilevabili e ben descritti dal DSM-IV, assumono consistenza intrinseca, importanza clinica e sociale, ma soprattutto minore o maggiore potere invalidante in funzione del modo più o meno patologico in cui vengono elaborati e gestiti dall’io del paziente: conosciamo tutti moltissimi pazienti che, nonostante fenomeni compulsivi, ansie, sbalzi emotivi di vario tipo e addirittura deliri e allucinazioni, riescono a mantenere un lavoro, ad essere autonomi e anche consapevoli del loro stato. E conosciamo tutti un numero altrettanto grande di pazienti che, pur in assenza di qualunque sintomo o problema del tipo suddetto, sono di fatto totalmente disabili.
In altre parole, sintomi psichiatrici obiettivabili ed effettiva disabilità complessiva sono in larga misura scorrelati: si intersecano variamente, si sovrappongono e si modificano reciprocamente, ma, almeno in base alla mia esperienza, non al punto per cui a un quadro clinico (per esempio un disturbo delirante) corrisponda una certa prognosi sociale. In sostanza, cioè, il tipo e l’entità dei sintomi, presi separatamente, non permettono né una predizione sulla futura disabilità del paziente, né la formulazione di una linea terapeutica efficace, se non dopo una lunga e approfondita osservazione e complesse considerazioni psicologico – cliniche.
Considerazioni che devono avere per oggetto, non i sintomi, ma le modalità più o meno psicotiche in cui i sintomi stessi (anche internistici o di altro tipo) e i comportamenti, come la vita del paziente nel suo complesso, vengono gestiti.

Io uso il termine “psicotico” in senso intenzionalmente molto lato e mal definito, per indicare un funzionamento dell’io non solo insufficiente, ma, per così dire invertito, che invece di conciliare e contenere le istanze divergenti (interne ed esterne), sparge nell’ambiente i propri contenuti mentali scissi e divenuti discordanti; invece di smaterializzare i vissuti li concretizza e li passa all’atto; anziché compiere la sua funzione basale di garante dell’identità del soggetto in mondo estraneo e mutevole, produce alienità, distanza e incomunicabilità.
Il processo psicotico è una sorta di “esternalizzazione” dell’identità, un’ardua ricerca di individuazione passiva, delegata all’ambiente circostante e destinata a sostituire l’incapacità o la non-disponibilità ad autodefinirsi.
E’ un progetto che, se non riesce (ed è difficile che riesca, per intrinseca paradossalità e per scarsa tenuta delle persone circostanti), ottiene l’effetto di inquinare l’ambiente stesso, ivi compresi gli osservatori e gli strumenti stessi dell’osservazione, a meno che questi non pongano il focus del proprio intervento non sull’obiettività dei fenomeni, bensì sull’intero campo interattivo tra il paziente e il suo contesto, compreso, appunto, il gruppo curante stesso e chi ha il compito di fare la diagnosi!
E’ chiaro che queste peculiarità di funzionamento dell’io psicotico impongono una cautela tutta particolare e una serie di precauzioni e di misure preventive, volte, prima ancora che a curare o a diagnosticare, a mantenere integro l’apparato diagnostico-terapeutico stesso, facilmente preda della patologia.
Le procedure preventive  sono numerose. Rimando chi fosse interessato, al mio lavoro “Dieci anni di attività cognitive in comunità terapeutica” reperibile nella sezione PUBBLICAZIONI di questo sito.
A questo scopo, diventa soprattutto importante l’atteggiamento di fondo dei curanti e la consapevolezza che il contatto col paziente può avvenire solo se viene superato un rapido “esame di idoneità” da parte sua, volto a capire se il curante stesso si districa nel suo ginepraio mentale meglio di lui o… peggio.
Tale check preliminare (da parte del paziente nei confronti del curante) è molto professionale e avviene sostanzialmente sulla base di quanto detto nei precedenti punti di questo blog.
Il paziente vuole assicurarsi che noi siamo in grado di:
– agire senza chiedere il suo consenso, cioè che non subordiniamo la relazione terapeutica e la protezione all’esistenza di un funzionamento mentale superiore a quello che è disposto a dare in quel momento (v. punto 1);
– mettergli e fargli rispettare con intransigenza e, se occorre, anche con una certa severità dei limiti, normativi, logici (come differenze tra “giusto” e “sbagliato”) e diagnostici, che interrompano e creino una discontinuità col suo modo di essere e di pensare precedente, facendolo sentire mentalmente contenuto, ma in maniera concreta, tangibile (v. punto 2);
– proteggerlo nelle funzioni e nei rapporti che gli creano problemi (operando “a livello 0”, v. punti 3 e 4);
– non sopravvalutare i suoi sintomi apparenti (punto 5, questo), che lui, più di noi, sa essere contingenti e superficiali. Infatti constatiamo che in gran parte si sciolgono come neve al sole, con la permanenza in un luogo adeguatamente “protettivo” (v. punto 3-4) e con un po’ di farmaci ben scelti (peraltro, spesso, non diversi da quelli che prendeva prima).
Se il paziente si accorge che stiamo ansiosamente cercando il suo consenso (formale e sostanziale), e che per ottenerlo siamo disposti a concedere qualunque libertà, che vogliamo anzi che si senta a suo agio e libero di esprimersi come vuole; se avverte che abbiamo bisogno che condivida subito quello che facciamo, prenda posizione, anzi decida lui il suo programma terapeutico (“ti piace dipingere?”); se si fa l’idea che a noi interessa solo attenuare i suoi sintomi superficiali, negando (già attraverso la diagnosi) il baratro che c’è sotto, il rapporto terapeutico è già morto prima di nascere.
La terapia e la riabilitazione consistono nel far sentire fin dal primo momento la nostra intenzione e la nostra capacità pratica di interrompere i meccanismi della patologia e possibilmente invertirli nuovamente in senso costruttivo.
Ma questi meccanismi anomali, per essere curati devono essere visti, “chiamati per nome” e non negati, nella consapevolezza che

– trasparenza, obiettività, concretezza, affettività sobria e contenuta, definizioni, limiti (in tutti i sensi), norme comportamentali, deresponsabilizzazione, ecc. operano in senso anti-psicotico;

– “negazionismo” diagnostico, ambiguità, responsabilizzazione precoce e intempestiva, complicità patologica e intrisa di affettività operano in senso pro-psicotico e sono già esse stesse espressione di qualche forma di contagio (peraltro spesso inevitabile, s’intende, e a tratti anche funzionale).

Tutto questo è in qualche modo pre-contenuto nell’atto della diagnosi: sparare certe diciture esotiche, senza contestualizzarle in modo adeguato (e quindi, a rigore, senza fare diagnosi) mostra i limiti della nostra capacità di capire il paziente e di farcene carico. Non nego però che anche questa possa talvolta essere un’operazione di trasparenza! Un’indisponibilità dichiarata è molto più terapeutica di una disponibilità ambigua e ambivalente.
Però io non credo che diagnosi superficiali ed ingenue come quelle suggerite e favorite dal dall’illusoria obiettività del DSM-IV, nonostante le pur lodevoli intenzioni di coloro che hanno concepito lo strumento, preparino tutti i curanti a gestire la psicosi (compresa quella indotta nel gruppo di lavoro) e a muoversi con sicurezza nel mondo della patologia.
Che è il loro habitat professionale. O no?

 

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Protezione o stimolazione?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

 

Cosa vuol dire, allora, proteggere un paziente psicotico?

Abbiamo visto che lasciarlo esposto alle normali sollecitazioni ambientali induce una chiusura difensiva, mentre sospendere le sollecitazioni esterne equivale a lasciare che si danneggi da solo, alimentando in ogni caso un circolo vizioso tra difesa antalgica e perdita di funzioni e di contenuti.

Sembra che proprio non ci sia spazio di manovra.

E’ uno dei classici casi in cui si constata come la logica della psicosi (o almeno della psicosi non riconosciuta) persegua con determinazione il raggiungimento del punto di impotenza, per il paziente stesso e  per i suoi curanti. Almeno finché non la si capisce.

In altre parole, una condizione in cui, se non si fa niente, si è danneggiati e, se si fa qualcosa, si sbaglia comunque.

E allora?

E’ qui che si vede, se la si ha, l’autentica comprensione del mondo del paziente!

Dobbiamo imparare a maneggiare l’unica logica in grado di essere capita da lui e capace di entrare nel suo mondo.

Cos’è che caratterizza la logica psicotica?

Un funzionamento anche molto complesso della mente, che però deve avvenire in maniera tale da non richiedere le prestazioni di una personalità presente e forte, quali senso della propria identità, critica, relazionalità, consapevolezza, assunzione di responsabilità e molte altre ancora.

Cioè un funzionamento in assenza (o, meglio, in fluttuante sospensione) delle funzioni superiori dell’io, dal cui uso il paziente rifugge e che, quando vengono richieste, lo bloccano.

Ma come si fa a tenere assieme un mondo complesso, senza impiegare, per esempio, la capacità di prendere le distanze dall’ambiente (interno ed esterno), di smaterializzare, di conciliare gli opposti, di sostituite simboli a cose materiali e poi di trasmettere il tutto da una persona all’altra? Sono queste capacità che permettono di far stare in ordine nella nostra testa milioni di oggetti (per propria natura concreti e indipendenti l’uno dall’altro, se non contrastanti) e di integrarli armonicamente tra di loro e all’interno del nostro mondo… oltre che in quello degli altri…

Non è possibile farne a meno, se non tagliando parti molto consistenti di ciò che dovrebbe essere elaborato e degli strumenti stessi dell’elaborazione.

Che è quello che fa il paziente.

Ma si possono esplorare altre possibilità, basate su un “inganno“, molto simile a quello del cavallo di Troia.

Il ragionamento di partenza è questo: le funzioni superiori sono sofferenti, indebolite, virtuali, ma non assenti. Se siamo convinti che il paziente davvero non sia in grado di esercitarle, dobbiamo chiudere il discorso e abbandonare qualunque velleità terapeutico – riabilitativa, perché, data l’infinita complessità dei processi coinvolti, non si vede come si possa anche solo pensare di ripristinare veramente il funzionamento di una mente malata.

In realtà il paziente non è privo della capacità di farlo: solo “non vuole“, perché gli fa male e ne ha paura ed erige delle barriere protettive. Ma sono barriere sovradimensionate, non selettive e globali: tengono “fuori dalle mura” tutto ciò che supera una certa complessità e un certo grado di organizzazione interna (persone, rapporti, idee, sentimenti…).

Questa rigida esclusione, solo in piccola misura avviene perché il materiale esterno obiettivamente non può essere elaborato in tempi reali, da parte di strutture mentali progressivamente indebolite dalla malattia e dal crescente non-uso. Il principale fattore causale è costituito dal fatto che il confrontarsi anche con un solo oggetto esterno più complesso costringe il paziente a bloccare tutto il funzionamento mentale, per evitare quelle implicazioni così impegnative e dolorose che egli associa al funzionare come un soggetto a tutti gli effetti.

In altre parole possiamo legittimamente sostenere che il blocco, almeno in buona misura,

– è quantitativamente sproporzionato all’entità della disabilità di base

– si estende ben al di là delle effettive incapacità settoriali

– è anche “frutto di cattive abitudini” (acquisizione stratificata di modalità di funzionamento distorte).

 

E’ su tale convinzione (ovviamente discutibile, come tutto) che si basa la speranza di mettere in atto un lavoro terapeutico – riabilitativo.

Se, a questo punto, noi abbassiamo il livello di complessità degli oggetti da introdurre e inventiamo (dato che non esiste – credo – “in natura”) un mondo “a livello di complessità zero”, le difese non vengono allertate e la barriera diventa permeabile.

 

Si tratta allora di costruire un ambiente “a complessità zero”, fatto di totale concretezza, di totale trasparenza, privo di espressioni polivalenti, di metafore e di rimandi logici.

Un ambiente in cui non viene richiesto di pensare, mediare e decidere, cioè di compatibilizzare opposti, gestire contraddizioni, conciliare esigenze inconciliabili.

Un mondo senza limiti, allora?

No, al contrario, un mondo dai limiti chiari, obiettivi, concreti e ineludibili.

Un ambiente che non richiede persone in grado di esercitare le funzioni superiori della mente, quindi un mondo di “non-persone”… che vivono e convivono, pensano, fanno delle cose, hanno scambi affettivi e relazionali… ma lo fanno in maniera eterodiretta, cioè pilotate unilateralmente da altri, nel senso che vengono “interagite”, “comunicate” e “fatte fare”.

Un ambiente mentale, quindi, intriso di ossimori e di paradossi, come la “relazionalità non-relazionale” e la’”non-relazionalità relazionale“, la “passività attiva” e la “attività passiva“, e via di seguito.

Bisogna operare delle forzature linguistiche (come quella, appunto, di trasformare verbi transitivi in intransitivi e viceversa), per esprimere la peculiare qualità delle operazioni mentali e dei rapporti che si sviluppano in questo contesto.

Non sto parlando di Marte, ma di un normale ambiente psichiatrico.

Non so, ripeto, se “in natura”, cioè nell’ambito del normale sviluppo delle relazioni umane, esiste qualcosa di simile. Forse, in parte, nell’allevamento e nell’educazione dei bambini. Non credo nell’esercito o nelle carceri o simili, perché in questi casi la direzione dall’esterno non ha – come in Psichiatria – la pretesa di avvenire per conto e in favore dell’interessato, ma è un semplice dato di fatto.

La terapia psichiatrica, comunque, deve basarsi su questo.

 

Ci sono molti modi per abbassare il livello di complessità proposta al paziente psichiatrico.

Anzitutto un’ampia griglia di attività giornaliere, non decise da lui, bensì previste e programmate, che abbracci tutta la giornata, pur con ampi spazi di riposo e di recupero. Devono essere attività molto lontane e differenziate (dall’arte alla matematica, dalla psicomotricità al lavoro manuale, dai gruppi di discussione al lavoro esterno, ecc.), perché è con l’ampiezza e la differenziazione degli ambiti che indichiamo (non potendolo dire esplicitamente) i livelli di complessità potenziale ai quali ci aspettiamo di accompagnare il paziente.

Poi c’è l’esercizio dell’intelligenza e di altre funzioni fisiche e mentali per scopi non finalistici e “non propri”, se non addirittura inutili o assurdi. La giustapposizione di oggetti scollegati, senza logica, senza bisogno che vengano capiti ed elaborati, è accettata dal paziente, perché è compatibile con la sua visione del mondo, che non deve richiedere l’esercizio della facoltà di decrittare le regole in base alle quali gli oggetti sono assemblati.

L’assenza di logica (se non l’assurdità), oltre a interagire bene con la psicosi per i motivi suddetti e ad essere una garanzia (illusoria!) di non-pericolosità dei contenuti, dà al paziente la sensazione di un’alternativa totale e quindi di una rottura con la sua realtà attuale e di un grande cambiamento potenziale. E’ anch’essa una forma di limite, che rimanda a un’integrazione superiore, ma non la richiede preventivamente.

Poi c’è il lavoro di scomposizione di realtà complesse e impegnative: “frantumare” gli oggetti (cose, persone, situazioni di vita….), analizzarli nei loro costituenti elementari, spiegarne il funzionamento (per esempio vedere come ci si comporta, cosa vuol dire essere contenti o o arrabbiati, ecc.) , semplificarli in maniera esasperata e, in tale forma frammentata farli entrare, piano piano, subdolamente, ad uno ad uno, all’interno dell’Io svuotato e impoverito dall’automutilazione.

Ci sono molti altri accorgimenti per abbassare il livello di complessità della convivenza con i pazienti (v. il mio lavoro “Dieci anni di attività cognitive in comunità terapeutica“, nella sezione PUBBLICAZIONI di questo sito), muovendosi in uno stretto corridoio tra due rischi contrapposti: quello di fare questo lavoro in maniera debole e parziale che peggiora l’assopimento delle funzioni e quello di farlo troppo o intempestivamente, creando delle condizioni perversamente patogene, che configurerebbero una vera malpractice! Qualcosa che evocherebbe i campi di sterminio o i gulag o la tortura psicologica.

Se invece, dopo qualche necessario aggiustamento, indoviniamo entità, tempi e modi dell’inoculazione, il materiale estraneo introdotto costringe l’Io assopito e impigrito a “fare il suo mestiere”, a risvegliarsi per organizzarlo e assimilarlo, cioè ad esistere e, se siamo fortunati, a continuare ad esistere anche al di fuori delle condizioni da noi create.

L’effetto visibile di questo, quando si verifica, è un miglioramento sincronico e globale di tutto il funzionamento mentale, con aumento della relazionalità, della critica, del realismo, della consapevolezza, della capacità di ironia, e così via.

Negando o non richiedendo le funzioni superiori dell’Io, l’Io si attiva… Come vogliamo chiamare questo processo? Situazione assurda? Paradosso? Ma è la realtà della terapia psichiatrica.

 

IN CONCLUSIONE: proteggere vuol dire far lavorare, per lunghi periodi, la testa, il corpo e i sentimenti del paziente, senza chiedergli di essere l’autore o il titolare di quello che fa.

 

Va tenuto presente che quella che chiamiamo “protezione” è la prima parte di un processo unico, che comprende una seconda parte inscindibile dalla prima, che, più propriamente, dobbiamo chiamare “stimolazione”.

E’ necessario, ovviamente, che qualcuno, meglio se è un gruppo, abbia in mente il piano dell’opera e gestisca tutto il processo.

E qui casca l’asino!

Sì, perché, tornando al leitmotiv di questo blog, siamo costretti a constatare ancora una volta che, di solito, nel mondo psichiatrico, le cose veramente utili sono fatte poco e male e che spesso, anzi, ne viene teorizzato il contrario!

Il motivo è che anche gli operatori sono recalcitranti ad operare “a livello zero”, almeno tanto quanto i pazienti sono restii a operare a livelli alti, vale a dire che, come tutte le persone “normali”, non sopportano di non impiegare la logica comune dove non va impiegata. Non accettano mai, neanche per periodi limitati e strumentalmente, la mancanza di senso e di relazionalità forte, anche e soprattutto quando queste obiettivamente non ci sono!

E vedono o costruiscono significati e relazioni inesistenti, proiettando materiale proprio, come nel Reattivo di Rorschach: non volendo passare attraverso una pazzia controllata (il livello di funzionamento zero), ingannano se stessi (con conseguenze personali anche gravi) e bloccano tutto il processo terapeutico.

Ma questo apre un altro discorso, che sarà oggetto delle prossime puntate, insieme ai rimedi (altri cavalli di Troia, in senso contrario!) per contrastare il fenomeno.

 

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La protezione del paziente psichiatrico: quale protezione?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Il concetto di protezione è uno dei più equivocati che ci siano in Psichiatria. Il motivo, in questo caso più che in altri, è comprensibile: non si tratta di un concetto facile.
Cosa vuol dire proteggere un paziente psichiatrico?
Molti Colleghi intendono la protezione come un maternage, cioè un incremento di vicinanza affettiva e di coccole, fino a configurare una sostanziale infantilizzazione del rapporto.
Cosa che, in qualche caso, può anche andare bene, per carità! Ma il più delle volte infastidisce il paziente, il quale, se non ha la forza di tenere a distanza l’operatore maldestro e invadente, resta confuso e vede aumentare i suoi problemi,
Da parte di altri Colleghi, invece, la risposta alla domanda è più professionale: proteggere vuol dire tenere il paziente al riparo da sollecitazioni e stimoli, i quali, anche senza essere obiettivamente eccessivi, si rivelano per lui patogeni o addirittura tossici.
Su questo siamo tutti d’accordo.
I problemi nascono quando si tratta di stabilire come operare questa protezione.
Di frequente essa viene intesa nel senso più semplice, mutuato da altri campi dell’assistenza, per esempio quella agli anziani o ad altri portatori di gravi handicap fisici: fare per lui quello che non sa fare, ma soprattutto tenerlo al riparo da qualunque sollecitazione, non solo dalle richieste della Società, ma anche da qualunque altro problema, familiare, economico, di salute, di vita insomma.
Tendere a una protezione globale, diffusa, concreta, totale. Cosa che, tutto sommato, funziona abbastanza, almeno nel senso di evitare le crisi o gli aggravamenti acuti.
Ma che, alla lunga, mostra i suoi limiti.

Cosa bisogna fare, allora?

E’ qui che si mette in gioco il patrimonio di esperienze e di riflessione acquisito nella pratica protratta di questo lavoro.
Che cos’è ciò da cui queste persone hanno bisogno di essere difese?
Se osserviamo un paziente, spesso (ma non sempre e non in proporzione alla gravità della malattia) ci appare, in molti campi, indiscutibilmente “disabile”: non si tiene in ordine fisicamente, provvede poco e male alla sua gestione del quotidiano, si districa male nei rapporti sociali e lavorativi, crea con alcune persone dipendenza fusionale, induce in altre ostilità e rigetto, appare “imbranato” e incapace di fare molte cose, piccole e grandi.
Se andiamo più per il sottile, ci accorgiamo che ha molte altre carenze, anche più profonde: sembra non capire molte delle cose che gli succedono intorno, ricorda con più difficoltà, ha problemi di organizzazione spaziale, di esecuzione, sembra non individuare la cosa più importante di una situazione o di un discorso, non riesce a capire le ragioni dell’interlocutore e a identificarsi con lui, ecc., ecc.
Tutto questo lo leggiamo nei lavori di Neuropsicologia e lo verifichiamo quotidianamente nella convivenza con i pazienti.
Però, se proviamo ad approfondire il discorso, le cose diventano molto più complesse e impongono altri quesiti. Per esempio: perché le carenze suddette in alcuni pazienti mancano del tutto? E, quando ci sono, perché sono così variabili da una persona all’altra?
E poi: se è vero che, in generale, alcune disfunzioni sono primarie, legate a qualche deficit di base e altre secondarie, cioè indotte da fattori più globali, come si fa, nel singolo caso, a sapere qual è l’uovo e quale la gallina? Cioè individuare quali sono i sintomi direttamente legati a una disfunzione sottostante, rispetto a quelli “costruiti” difensivamente? e quelli “simulati”, rispetto a quelli dovuti a prolungato “non-uso” della funzione?
Il paziente che abbiamo davanti, non sa fare quello che gli stiamo chiedendo? o non vuole farlo? o ha dimenticato come si fa? o vuol farci credere che non può? Chissà?!… Dobbiamo scoprirlo di volta in volta…
Si badi che non sono domande accademiche o retoriche, perché dalla risposta dipende tutta l’impostazione del nostro impianto terapeutico – riabilitativo.
Ma la risposta non la otteniamo facilmente.
Il fatto è che dobbiamo capire come si formano i sintomi e perché.
Certamente il paziente ha il grosso problema di difendersi dalla sovrastimolazione: è soverchiato da cose disparate che non capisce o che non riesce a collegare, a far convivere tra loro, a compatibilizzare; subisce emozioni e rappresentazioni, che percepisce nella loro immediatezza e concretezza, ma da cui non riesce a prendere le distanze. Non viene a capo delle contraddizioni e delle ambivalenze, non può rimandare il soddisfacimento dei bisogni (perché per lui quello che non è concreto e immediatamente percepibile, semplicemente non esiste…), vuole la vicinanza, ma il contatto con l’altro lo disorienta, lo fa sentire invaso.
Ripeto ancora che non sappiamo mai con certezza quanto non possa o non voglia compiere, in tutto o in parte, queste operazioni. Direi però che, tutto sommato, non ci interessa più di tanto, perché il risultato finale è sempre lo stesso.
In che senso?
Nel senso che egli ritiene che il compito di salvaguardare la sua identità e un minimo di coesione interna sia facilitato da operazioni di esclusione massiccia di buona parte dei propri vissuti e di intere porzioni della realtà esterna e compie una sorta di “auto-mutilazione” psichica. Pensa che un campo percettivo più ristretto e più semplice sia meglio controllabile di uno ampio e complesso e così taglia, nega, non vede e non capisce tutto quello che lo disturba: esperienze, emozioni, strumenti cognitivi, rapporti, persone…
Esclude, insomma, intere parti di sé, le ignora, non le tiene in funzione e quindi in vita.
E, in applicazione di quanto diceva un proverbio greco (“gli dei accecano chi non vuol vedere”), tale sospensione funzionale, alla lunga, finisce per diventare una amputazione definitiva.
E’ chiaro che si tratta di un circolo vizioso che mette in moto altri circoli viziosi: una persona, già menomata dalla malattia, aggrava le sue menomazioni nel tentativo di contenerle e limitare i danni. Si impoverisce e, così facendo, controlla sempre meno la sua realtà e dovrà difendersene sempre di più, isolandosi e limitando ulteriormente la propria esperienza di vita.
Sembra (e spesso è) una situazione disperante, però è proprio la possibilità di intervenire in questi meccanismi che giustifica e, se siamo fortunati, premia i nostri interventi riabilitativi.

Cosa possiamo fare, a questo punto, per aiutarlo veramente?

Abbiamo visto come, di solito, sia in famiglia, sia in comunità, si tenda a escludere il paziente da qualunque sollecitazione esterna, a tenerlo al riparo da questioni personali pesanti, da problemi, da decisioni, come se fosse un bambino, spesso inventando scuse e giustificazioni, che lui capisce immediatamente e che lo preoccupano molto di più che se le cose gli fossero dette chiaramente.
Ma se si volessero attuare interventi più incisivi, cosa bisognerebbe fare?
Ridurre la protezione potrebbe aumentare la sovrastimolazione al di là del tollerabile.
Affrontare e risolvere al posto del paziente i singoli problemi presentati difensivamente (o “pretestuosamente”, come pensano, con apparente ragione, i più ingenui), può essere inutile, dannoso, addirittura risibile.
Proteggerlo in maniera massiccia e aspecifica confermerebbe e completerebbe i processi di automutilazione che già fa per conto suo.
Un’altra via c’è, ma la sua esposizione merita di essere rimandata alla prossima puntata.

 

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Il limite in terapia psichiatrica: quali limiti?

di Giandomenico Montinari

La gestione dei limiti è il secondo grande tema su cui ben pochi di noi riescono ad essere coerenti nella loro pratica clinica.

La capacità di gestire i propri limiti sembra essere l’attitudine più carente nella vita del paziente psicotico. La parola “limite” propriamente comprende molte cose: limiti tra sé e “il mondo” anzitutto. Poi limiti tra emozione e azione, tra pensiero e emozione, tra pensiero e azione, limiti tra ciò che è proprio e ciò che è altrui, tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare.

E ancora: limiti tra fare e non fare, tra giusto e sbagliato, tra reale e irreale. Si potrebbe andare avanti molto a lungo.

Il paziente psicotico sembra non potere (o non volere, o non potere abbastanza, chissà…) capire dove sono i suoi limiti, dove finisce il suo ambito esistenziale e dove comincia quello degli altri; altri che – detto tra parentesi – di solito vengono percepiti come poco più che dei soprammobili o delle figure disegnate sulla parete. Così, almeno, stando a quello che sembra.

Ciò di cui il paziente ha più bisogno, dunque, prima e al di là di qualunque altra cosa, è essere aiutato a capire e a gestire i suoi limiti. Non si può, non dico curare, ma neanche instaurare un iniziale rapporto di fiducia con un paziente, se non si riesce a interrompere l’esperienza psicotica.

Interrompere vuol dire reintrodurre (o imporre…) nel mondo del paziente l’esistenza della realtà esterna: qualcosa che non è deformabile a piacimento, che ha una sua esistenza a prescindere dal fatto che lui la voglia o non la voglia, la capisca o non la capisca.

Una esistenza fisica, corporea, incomprimibile, indiscutibile, cogente. Può essere una regola, una porta chiusa, un rifiuto, un’imposizione sgradita (come fare la doccia che non fa da un mese!), una privazione. In una parola, un NO.

Oppure un SI.

Solo confrontandosi con questo limite, essendo cioè costretto a “tenere assieme”, distinti ma uniti nello stesso orizzonte percettivo, se stesso e quello che lo circonda, il paziente può tentare di recuperare la sua identità, le capacità simboliche e riflessive e tutto quello che forma le funzioni superiori dell’Io, a partire dal recupero delle coordinate spaziali e temporali, da una ritrovata linea di demarcazione tra un qua e un là, un prima e un dopo, un alto e un basso, un dentro e un fuori.

Non è il (precario) coinvolgimento in una forte relazione (all’inizio quasi impossibile, anzi tossica) che crea il limite, ma l’esatto contrario: è il limite che stimola, consente, fa crescere la relazione, punto d’arrivo finale del nostro lavoro.

Mi rendo conto che non tutti hanno questa capacità e che questo modo di procedere, peraltro non sempre possibile, comporta grosse responsabilità, grande energia e talvolta coraggio, anche fisico. Ma è l’unica cosa che viene chiesta a noi addetti ai lavori! Tutto il resto può farlo chiunque altro!

 

Naturalmente il paziente, con lo stile che gli è proprio, tutto questo non lo dice. Non lo dice perché non può dirlo, perché se riuscisse a dirlo, significherebbe che non è questo il suo problema principale e che quindi non avrebbe bisogno di esperti specialisti (cioè noi) per affrontarlo. In sostanza se fosse una persona capace di gestire i propri limiti non sarebbe lì davanti a noi e sarebbe da un’altra parte.

L’unica segnalazione di bisogno (che è anche, se vogliamo, l’unico “aiuto” che riceviamo da lui) è il suo esasperare i problemi, per costringerci a prenderne atto: trasgredire alle regole, divagare su temi particolarmente fantasiosi e assurdi, pretendere cose chiaramente impossibili, “dimenticare” compiti e mansioni, “omettere” informazioni importanti, “fingere” di non sapere e non capire, ecc. ecc.. Tutti comportamenti che, intanto, svolgono anche la (legittima) funzione di prenderci le misure, testare con molta professionalità la nostra tenuta e saggiare i nostri limiti.

Teniamo presente che tali richieste di aiuto sono indiscutibilmente mal formulate, ma non sono rivolte a chicchessia, bensì a specialisti della comunicazione paradossale, cioè a noi, che siamo tenuti per ruolo e per contratto a saperle decifrare, prima ancora che a soddisfarle o a frustrarle. Essendo, sia noi sia il paziente, nel pieno esercizio delle nostre rispettive funzioni, se alla fine il contatto non avviene, la parte inottemperante siamo noi, non lui.

 

Ebbene, qual è la risposta più frequente a questi evidenti e disperati cry for help, a questo bisogno che qualcuno o qualcosa si assuma finalmente la responsabilità e il ruolo di mettere ordine nella sua testa, a partire dagli aspetti più elementari?

La risposta è, quasi sempre, quella esattamente opposta.

Un atteggiamento volto a minimizzare i problemi, a concedere qualunque cosa, a non richiedere nulla che possa lontanamente far sospettare al paziente (che la nega o finge di negarla) l’esistenza di una obiettività, di istanze esterne, reali, non manipolabili. Libertà assoluta, di pensare e dire qualunque cosa (anche di grossolanamente delirante), di fare o non fare, di uscire o non uscire senza alcun motivo, di perseguire idee e compiti cervellotici, di disinteressarsi di tutto, di non avere stimoli, compiti, programmi. Sospensione o abolizione di qualunque cosa si configuri come una distinzione di ambiti, una differenziazione di significati, una distanza.

Niente di tutto questo.

“Il paziente è qui per curarsi – si pensa e si dice -: deve essere libero di esprimersi come vuole, non deve essere disturbato con continui richiami a una realtà che non sa gestire e che lo fa sta male. Se anche pensa che i Marziani o la CIA gli mettano le microspie nell’armadio, cosa importa? Si riempie la vita con queste cose e non fa male a nessuno”. (Il che qualche volta è anche vero o almeno inevitabile, intendiamoci bene!).

Il nostro compito – si ritiene – è anzitutto quello di rispettare le sue scelte di vita, poi quello di farlo vivere in un’atmosfera di benevola tolleranza, osservarlo, cercare di capire i suoi problemi inespressi, anche a rischio di sembrare, addirittura a lui stesso, collusivi, anzi complici.

Qualche volta, forse, tutto ciò è inevitabile, lo capisco. A chi di noi non è successo? Ma proporlo come programma terapeutico…

Cura? Cambia la realtà del paziente? Giustifica l’onorario o lo stipendio (lauto o meno lauto, non è questa le sede per parlarne!) di un operatore specializzato in tali problematiche, di un terapeuta – riabilitatore per pazienti gravi?

 

Io credo di no.

 

L’idea che il paziente si fa di noi è che anche noi (come quelli che ci hanno preceduto) non stiamo capendo niente di lui e/o che non abbiamo gli strumenti per aiutarlo. Sapendo di essere (ed essendo) un “sacco vuoto” (vuoto di strumenti di comprensione validi, di contenuti reali, di chiarezza mentale), constata che noi lo lasciamo nella sua disperante beanza, più vuoto e confuso di quanto sarebbe da solo, con la sola preoccupazione di rispettarlo, di dargli da mangiare e di osservarlo benevolmente!

Dato il suo modo concreto di pensare, il fatto di non vietargli niente e di non chiedergli niente gli fa ritenere che non lo giudichiamo capace di operare su di sé il minimo cambiamento positivo. Cosa che peraltro pensa o magari auspica anche lui!

E si comporta di conseguenza: non solo non richiede, ma non facilita neanche (per così dire) la cosa di cui ha più bisogno e che più gli sarebbe utile…

Anzi, diciamola tutta, fa qualunque cosa per renderla difficile. Perché vuole essere sicuro – a ragione – che noi siamo ben convinti e consapevoli di quello che gli facciamo.

Se la nostra filosofia operativa, tollerante e rispettosa, non può prescindere dal consenso (v. punto precedente) e dalla collaborazione, espliciti e preventivi, e non contempla che vengano messi dei limiti, beh, il rapporto con questi pazienti rischia di diventare la nostra Waterloo professionale… e un ennesimo fattore di cronicizzazione per i nostri interlocutori.

 

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Il consenso del paziente psichiatrico?

di Giandomenico Montinari

Non c’è rapporto terapeutico, programma, approccio, metodica terapeutica che non dichiari di basarsi sul consenso del paziente, che non parta, cioè, dal fatto che egli capisca quello che si vuol fare per lui, ne condivida le finalità, offra la sua collaborazione. Se il consenso non è proprio immediato, si suggeriscono delle tecniche per conseguirlo in tempi brevi.

Questo è giusto, bello, politically correct, tale da facilitare il lavoro e, quando c’è, è un elemento prognosticamente favorevole.

Peccato però che il consenso sia, il più delle volte, semplicemente illusorio: il paziente vero, quello di una certa gravità, per il quale devono entrare in campo gli specialisti, di solito (“per definizione”, si potrebbe dire) non capisce e non condivide affatto quello che ci si accinge a fare con lui, sia esso un ricovero, un inserimento in comunità e in centro diurno, l’avvio di un programma terapeutico-riabilitativo o di una psicoterapia.

Se sembra che lo faccia, è, diciamo così, per cortesia, o per compiacenza passiva o per costrizione o per opportunismo o per altre ragioni, oscure o inconfessabili.

Se capisse e condividesse il nostro progetto, ciò starebbe a significare che non soffre dei problemi che lo hanno portato a noi; che non avrebbe bisogno del nostro intervento specialistico e potrebbe rivolgersi per aiuto a qualunque altro tecnico. Il motivo per cui viene (o, meglio, viene condotto) da noi è proprio la sua difficoltà di presa di coscienza complessiva del suo stato e la difficoltà di integrazione interna dei suoi vissuti, che sono notoriamente tra le funzioni più colpite dalla malattia da cui è affetto.

Il consenso (di cui fa parte la c.d. “compliance”) è il risultato (non prevedibile nei tempi e nei modi) di un lavoro lungo, complesso, faticoso e… fortunato! Un risultato che, quando e se si verifica, prelude alla dimissione, almeno per quanto riguarda noi.

Il fatto, invece, che il consenso venga cercato in tempi brevi, che sia considerato addirittura una premessa del lavoro, o, peggio, che venga semplicemente presunto, come può essere definito?

Un’ingenuità colpevole o, tout court, un errore metodologico?

Ebbene, su tale errore, cioè sulla presunzione di un illusorio consenso, si basa tutto (ma proprio tutto) il programma che verrà attuato in seguito, le metodiche, per un verso, ma anche gli atteggiamenti dei curanti, per l’altro verso. E’ facile infatti che, al primo, più che prevedibile, intoppo, questi ultimi considerino il paziente scarsamente collaborativo, se non addirittura “cattivo”. Senza rendersene conto, cioè, gli attribuiscono la colpa di non sapere/potere/volere compiere prima del tempo le operazioni mentali che sono l’obiettivo finale del loro intervento!

A questo punto il paziente viene o abbandonato di fatto al suo destino, perché “inguaribile”, oppure redarguito o sottoposto a moral suasion, o nuovamente istruito sulle finalità e gli strumenti del lavoro.

Il che equivale esattamente a fare una dimostrazione grafico-visiva a una platea di ciechi o a tenere una conferenza a dei sordi (non protesizzati).

Che opinione pensate che il paziente si faccia dei suoi curanti? Pensate che abbia gli elementi per apprezzarli come tecnicamente competenti e in grado di cambiare il corso della sua malattia?

O non si convince, piuttosto, di essere di fronte, una volta di più, a persone che non capiscono proprio niente di lui e che non hanno gli strumenti per aiutarlo?

E dovrebbe, secondo voi, affidarsi a loro terapeuticamente?

Il guaio è che, sempre per gli stessi motivi suddetti (collegati alla sua malattia), il paziente non è in grado (o forse non vuole? chissà!?) spiegare tutto ciò ai suoi curanti. Pretende che lo capiscano da soli, aiutati soltanto dal persistere dei suoi agìti, dalla sua bizzarria, dalla sua paradossalità, dalla distanza che mette nei rapporti con loro.

E aspetta… mesi… anni…,  come se rispettasse la loro “scelta” di non capire.

Il fatto è che, dato il grandissimo bisogno che ha di essere aiutato, vuole essere sicuro che i curanti siano all’altezza del difficile compito di fargli da “io ausiliario” (come si suol dire). E vuole che lo dimostrino col non avere bisogno delle sue spiegazioni.

Ma se invece (come è evidente) hanno bisogno delle sue spiegazioni… sono all’altezza?!

Ovviamente no. Come dargli torto?

E così si va avanti per anni e anni, dando vita a un inesauribile braccio di ferro, destinato di solito a perdurare tutta la vita del paziente.

A meno che, un bel giorno, qualcuno non capisca il gioco e gli faccia capire che ha capito.

Anche lui senza dirglielo, per una legge di doverosa simmetria! O, meglio, senza fare appello ad alcuna forma di complicità, di identificazione reciproca, di condivisione. Se glielo dicesse non sarebbe preso in considerazione e ancor meno creduto…

Bisogna capire senza spiegazioni e far capire che si è capito, ma sempre senza spiegazioni!

E’ impossibile?

 

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