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Il blog di Giandomenico Montinari psichiatra psicoterapeuta

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di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Il concetto di protezione è uno dei più equivocati che ci siano in Psichiatria. Il motivo, in questo caso più che in altri, è comprensibile: non si tratta di un concetto facile.
Cosa vuol dire proteggere un paziente psichiatrico?
Molti Colleghi intendono la protezione come un maternage, cioè un incremento di vicinanza affettiva e di coccole, fino a configurare una sostanziale infantilizzazione del rapporto.
Cosa che, in qualche caso, può anche andare bene, per carità! Ma il più delle volte infastidisce il paziente, il quale, se non ha la forza di tenere a distanza l’operatore maldestro e invadente, resta confuso e vede aumentare i suoi problemi,
Da parte di altri Colleghi, invece, la risposta alla domanda è più professionale: proteggere vuol dire tenere il paziente al riparo da sollecitazioni e stimoli, i quali, anche senza essere obiettivamente eccessivi, si rivelano per lui patogeni o addirittura tossici.
Su questo siamo tutti d’accordo.
I problemi nascono quando si tratta di stabilire come operare questa protezione.
Di frequente essa viene intesa nel senso più semplice, mutuato da altri campi dell’assistenza, per esempio quella agli anziani o ad altri portatori di gravi handicap fisici: fare per lui quello che non sa fare, ma soprattutto tenerlo al riparo da qualunque sollecitazione, non solo dalle richieste della Società, ma anche da qualunque altro problema, familiare, economico, di salute, di vita insomma.
Tendere a una protezione globale, diffusa, concreta, totale. Cosa che, tutto sommato, funziona abbastanza, almeno nel senso di evitare le crisi o gli aggravamenti acuti.
Ma che, alla lunga, mostra i suoi limiti.

Cosa bisogna fare, allora?

E’ qui che si mette in gioco il patrimonio di esperienze e di riflessione acquisito nella pratica protratta di questo lavoro.
Che cos’è ciò da cui queste persone hanno bisogno di essere difese?
Se osserviamo un paziente, spesso (ma non sempre e non in proporzione alla gravità della malattia) ci appare, in molti campi, indiscutibilmente “disabile”: non si tiene in ordine fisicamente, provvede poco e male alla sua gestione del quotidiano, si districa male nei rapporti sociali e lavorativi, crea con alcune persone dipendenza fusionale, induce in altre ostilità e rigetto, appare “imbranato” e incapace di fare molte cose, piccole e grandi.
Se andiamo più per il sottile, ci accorgiamo che ha molte altre carenze, anche più profonde: sembra non capire molte delle cose che gli succedono intorno, ricorda con più difficoltà, ha problemi di organizzazione spaziale, di esecuzione, sembra non individuare la cosa più importante di una situazione o di un discorso, non riesce a capire le ragioni dell’interlocutore e a identificarsi con lui, ecc., ecc.
Tutto questo lo leggiamo nei lavori di Neuropsicologia e lo verifichiamo quotidianamente nella convivenza con i pazienti.
Però, se proviamo ad approfondire il discorso, le cose diventano molto più complesse e impongono altri quesiti. Per esempio: perché le carenze suddette in alcuni pazienti mancano del tutto? E, quando ci sono, perché sono così variabili da una persona all’altra?
E poi: se è vero che, in generale, alcune disfunzioni sono primarie, legate a qualche deficit di base e altre secondarie, cioè indotte da fattori più globali, come si fa, nel singolo caso, a sapere qual è l’uovo e quale la gallina? Cioè individuare quali sono i sintomi direttamente legati a una disfunzione sottostante, rispetto a quelli “costruiti” difensivamente? e quelli “simulati”, rispetto a quelli dovuti a prolungato “non-uso” della funzione?
Il paziente che abbiamo davanti, non sa fare quello che gli stiamo chiedendo? o non vuole farlo? o ha dimenticato come si fa? o vuol farci credere che non può? Chissà?!… Dobbiamo scoprirlo di volta in volta…
Si badi che non sono domande accademiche o retoriche, perché dalla risposta dipende tutta l’impostazione del nostro impianto terapeutico – riabilitativo.
Ma la risposta non la otteniamo facilmente.
Il fatto è che dobbiamo capire come si formano i sintomi e perché.
Certamente il paziente ha il grosso problema di difendersi dalla sovrastimolazione: è soverchiato da cose disparate che non capisce o che non riesce a collegare, a far convivere tra loro, a compatibilizzare; subisce emozioni e rappresentazioni, che percepisce nella loro immediatezza e concretezza, ma da cui non riesce a prendere le distanze. Non viene a capo delle contraddizioni e delle ambivalenze, non può rimandare il soddisfacimento dei bisogni (perché per lui quello che non è concreto e immediatamente percepibile, semplicemente non esiste…), vuole la vicinanza, ma il contatto con l’altro lo disorienta, lo fa sentire invaso.
Ripeto ancora che non sappiamo mai con certezza quanto non possa o non voglia compiere, in tutto o in parte, queste operazioni. Direi però che, tutto sommato, non ci interessa più di tanto, perché il risultato finale è sempre lo stesso.
In che senso?
Nel senso che egli ritiene che il compito di salvaguardare la sua identità e un minimo di coesione interna sia facilitato da operazioni di esclusione massiccia di buona parte dei propri vissuti e di intere porzioni della realtà esterna e compie una sorta di “auto-mutilazione” psichica. Pensa che un campo percettivo più ristretto e più semplice sia meglio controllabile di uno ampio e complesso e così taglia, nega, non vede e non capisce tutto quello che lo disturba: esperienze, emozioni, strumenti cognitivi, rapporti, persone…
Esclude, insomma, intere parti di sé, le ignora, non le tiene in funzione e quindi in vita.
E, in applicazione di quanto diceva un proverbio greco (“gli dei accecano chi non vuol vedere”), tale sospensione funzionale, alla lunga, finisce per diventare una amputazione definitiva.
E’ chiaro che si tratta di un circolo vizioso che mette in moto altri circoli viziosi: una persona, già menomata dalla malattia, aggrava le sue menomazioni nel tentativo di contenerle e limitare i danni. Si impoverisce e, così facendo, controlla sempre meno la sua realtà e dovrà difendersene sempre di più, isolandosi e limitando ulteriormente la propria esperienza di vita.
Sembra (e spesso è) una situazione disperante, però è proprio la possibilità di intervenire in questi meccanismi che giustifica e, se siamo fortunati, premia i nostri interventi riabilitativi.

Cosa possiamo fare, a questo punto, per aiutarlo veramente?

Abbiamo visto come, di solito, sia in famiglia, sia in comunità, si tenda a escludere il paziente da qualunque sollecitazione esterna, a tenerlo al riparo da questioni personali pesanti, da problemi, da decisioni, come se fosse un bambino, spesso inventando scuse e giustificazioni, che lui capisce immediatamente e che lo preoccupano molto di più che se le cose gli fossero dette chiaramente.
Ma se si volessero attuare interventi più incisivi, cosa bisognerebbe fare?
Ridurre la protezione potrebbe aumentare la sovrastimolazione al di là del tollerabile.
Affrontare e risolvere al posto del paziente i singoli problemi presentati difensivamente (o “pretestuosamente”, come pensano, con apparente ragione, i più ingenui), può essere inutile, dannoso, addirittura risibile.
Proteggerlo in maniera massiccia e aspecifica confermerebbe e completerebbe i processi di automutilazione che già fa per conto suo.
Un’altra via c’è, ma la sua esposizione merita di essere rimandata alla prossima puntata.

 

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di Giandomenico Montinari

La gestione dei limiti è il secondo grande tema su cui ben pochi di noi riescono ad essere coerenti nella loro pratica clinica.

La capacità di gestire i propri limiti sembra essere l’attitudine più carente nella vita del paziente psicotico. La parola “limite” propriamente comprende molte cose: limiti tra sé e “il mondo” anzitutto. Poi limiti tra emozione e azione, tra pensiero e emozione, tra pensiero e azione, limiti tra ciò che è proprio e ciò che è altrui, tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare.

E ancora: limiti tra fare e non fare, tra giusto e sbagliato, tra reale e irreale. Si potrebbe andare avanti molto a lungo.

Il paziente psicotico sembra non potere (o non volere, o non potere abbastanza, chissà…) capire dove sono i suoi limiti, dove finisce il suo ambito esistenziale e dove comincia quello degli altri; altri che – detto tra parentesi – di solito vengono percepiti come poco più che dei soprammobili o delle figure disegnate sulla parete. Così, almeno, stando a quello che sembra.

Ciò di cui il paziente ha più bisogno, dunque, prima e al di là di qualunque altra cosa, è essere aiutato a capire e a gestire i suoi limiti. Non si può, non dico curare, ma neanche instaurare un iniziale rapporto di fiducia con un paziente, se non si riesce a interrompere l’esperienza psicotica.

Interrompere vuol dire reintrodurre (o imporre…) nel mondo del paziente l’esistenza della realtà esterna: qualcosa che non è deformabile a piacimento, che ha una sua esistenza a prescindere dal fatto che lui la voglia o non la voglia, la capisca o non la capisca.

Una esistenza fisica, corporea, incomprimibile, indiscutibile, cogente. Può essere una regola, una porta chiusa, un rifiuto, un’imposizione sgradita (come fare la doccia che non fa da un mese!), una privazione. In una parola, un NO.

Oppure un SI.

Solo confrontandosi con questo limite, essendo cioè costretto a “tenere assieme”, distinti ma uniti nello stesso orizzonte percettivo, se stesso e quello che lo circonda, il paziente può tentare di recuperare la sua identità, le capacità simboliche e riflessive e tutto quello che forma le funzioni superiori dell’Io, a partire dal recupero delle coordinate spaziali e temporali, da una ritrovata linea di demarcazione tra un qua e un là, un prima e un dopo, un alto e un basso, un dentro e un fuori.

Non è il (precario) coinvolgimento in una forte relazione (all’inizio quasi impossibile, anzi tossica) che crea il limite, ma l’esatto contrario: è il limite che stimola, consente, fa crescere la relazione, punto d’arrivo finale del nostro lavoro.

Mi rendo conto che non tutti hanno questa capacità e che questo modo di procedere, peraltro non sempre possibile, comporta grosse responsabilità, grande energia e talvolta coraggio, anche fisico. Ma è l’unica cosa che viene chiesta a noi addetti ai lavori! Tutto il resto può farlo chiunque altro!

 

Naturalmente il paziente, con lo stile che gli è proprio, tutto questo non lo dice. Non lo dice perché non può dirlo, perché se riuscisse a dirlo, significherebbe che non è questo il suo problema principale e che quindi non avrebbe bisogno di esperti specialisti (cioè noi) per affrontarlo. In sostanza se fosse una persona capace di gestire i propri limiti non sarebbe lì davanti a noi e sarebbe da un’altra parte.

L’unica segnalazione di bisogno (che è anche, se vogliamo, l’unico “aiuto” che riceviamo da lui) è il suo esasperare i problemi, per costringerci a prenderne atto: trasgredire alle regole, divagare su temi particolarmente fantasiosi e assurdi, pretendere cose chiaramente impossibili, “dimenticare” compiti e mansioni, “omettere” informazioni importanti, “fingere” di non sapere e non capire, ecc. ecc.. Tutti comportamenti che, intanto, svolgono anche la (legittima) funzione di prenderci le misure, testare con molta professionalità la nostra tenuta e saggiare i nostri limiti.

Teniamo presente che tali richieste di aiuto sono indiscutibilmente mal formulate, ma non sono rivolte a chicchessia, bensì a specialisti della comunicazione paradossale, cioè a noi, che siamo tenuti per ruolo e per contratto a saperle decifrare, prima ancora che a soddisfarle o a frustrarle. Essendo, sia noi sia il paziente, nel pieno esercizio delle nostre rispettive funzioni, se alla fine il contatto non avviene, la parte inottemperante siamo noi, non lui.

 

Ebbene, qual è la risposta più frequente a questi evidenti e disperati cry for help, a questo bisogno che qualcuno o qualcosa si assuma finalmente la responsabilità e il ruolo di mettere ordine nella sua testa, a partire dagli aspetti più elementari?

La risposta è, quasi sempre, quella esattamente opposta.

Un atteggiamento volto a minimizzare i problemi, a concedere qualunque cosa, a non richiedere nulla che possa lontanamente far sospettare al paziente (che la nega o finge di negarla) l’esistenza di una obiettività, di istanze esterne, reali, non manipolabili. Libertà assoluta, di pensare e dire qualunque cosa (anche di grossolanamente delirante), di fare o non fare, di uscire o non uscire senza alcun motivo, di perseguire idee e compiti cervellotici, di disinteressarsi di tutto, di non avere stimoli, compiti, programmi. Sospensione o abolizione di qualunque cosa si configuri come una distinzione di ambiti, una differenziazione di significati, una distanza.

Niente di tutto questo.

“Il paziente è qui per curarsi – si pensa e si dice -: deve essere libero di esprimersi come vuole, non deve essere disturbato con continui richiami a una realtà che non sa gestire e che lo fa sta male. Se anche pensa che i Marziani o la CIA gli mettano le microspie nell’armadio, cosa importa? Si riempie la vita con queste cose e non fa male a nessuno”. (Il che qualche volta è anche vero o almeno inevitabile, intendiamoci bene!).

Il nostro compito – si ritiene – è anzitutto quello di rispettare le sue scelte di vita, poi quello di farlo vivere in un’atmosfera di benevola tolleranza, osservarlo, cercare di capire i suoi problemi inespressi, anche a rischio di sembrare, addirittura a lui stesso, collusivi, anzi complici.

Qualche volta, forse, tutto ciò è inevitabile, lo capisco. A chi di noi non è successo? Ma proporlo come programma terapeutico…

Cura? Cambia la realtà del paziente? Giustifica l’onorario o lo stipendio (lauto o meno lauto, non è questa le sede per parlarne!) di un operatore specializzato in tali problematiche, di un terapeuta – riabilitatore per pazienti gravi?

 

Io credo di no.

 

L’idea che il paziente si fa di noi è che anche noi (come quelli che ci hanno preceduto) non stiamo capendo niente di lui e/o che non abbiamo gli strumenti per aiutarlo. Sapendo di essere (ed essendo) un “sacco vuoto” (vuoto di strumenti di comprensione validi, di contenuti reali, di chiarezza mentale), constata che noi lo lasciamo nella sua disperante beanza, più vuoto e confuso di quanto sarebbe da solo, con la sola preoccupazione di rispettarlo, di dargli da mangiare e di osservarlo benevolmente!

Dato il suo modo concreto di pensare, il fatto di non vietargli niente e di non chiedergli niente gli fa ritenere che non lo giudichiamo capace di operare su di sé il minimo cambiamento positivo. Cosa che peraltro pensa o magari auspica anche lui!

E si comporta di conseguenza: non solo non richiede, ma non facilita neanche (per così dire) la cosa di cui ha più bisogno e che più gli sarebbe utile…

Anzi, diciamola tutta, fa qualunque cosa per renderla difficile. Perché vuole essere sicuro – a ragione – che noi siamo ben convinti e consapevoli di quello che gli facciamo.

Se la nostra filosofia operativa, tollerante e rispettosa, non può prescindere dal consenso (v. punto precedente) e dalla collaborazione, espliciti e preventivi, e non contempla che vengano messi dei limiti, beh, il rapporto con questi pazienti rischia di diventare la nostra Waterloo professionale… e un ennesimo fattore di cronicizzazione per i nostri interlocutori.

 

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di Giandomenico Montinari

Non c’è rapporto terapeutico, programma, approccio, metodica terapeutica che non dichiari di basarsi sul consenso del paziente, che non parta, cioè, dal fatto che egli capisca quello che si vuol fare per lui, ne condivida le finalità, offra la sua collaborazione. Se il consenso non è proprio immediato, si suggeriscono delle tecniche per conseguirlo in tempi brevi.

Questo è giusto, bello, politically correct, tale da facilitare il lavoro e, quando c’è, è un elemento prognosticamente favorevole.

Peccato però che il consenso sia, il più delle volte, semplicemente illusorio: il paziente vero, quello di una certa gravità, per il quale devono entrare in campo gli specialisti, di solito (“per definizione”, si potrebbe dire) non capisce e non condivide affatto quello che ci si accinge a fare con lui, sia esso un ricovero, un inserimento in comunità e in centro diurno, l’avvio di un programma terapeutico-riabilitativo o di una psicoterapia.

Se sembra che lo faccia, è, diciamo così, per cortesia, o per compiacenza passiva o per costrizione o per opportunismo o per altre ragioni, oscure o inconfessabili.

Se capisse e condividesse il nostro progetto, ciò starebbe a significare che non soffre dei problemi che lo hanno portato a noi; che non avrebbe bisogno del nostro intervento specialistico e potrebbe rivolgersi per aiuto a qualunque altro tecnico. Il motivo per cui viene (o, meglio, viene condotto) da noi è proprio la sua difficoltà di presa di coscienza complessiva del suo stato e la difficoltà di integrazione interna dei suoi vissuti, che sono notoriamente tra le funzioni più colpite dalla malattia da cui è affetto.

Il consenso (di cui fa parte la c.d. “compliance”) è il risultato (non prevedibile nei tempi e nei modi) di un lavoro lungo, complesso, faticoso e… fortunato! Un risultato che, quando e se si verifica, prelude alla dimissione, almeno per quanto riguarda noi.

Il fatto, invece, che il consenso venga cercato in tempi brevi, che sia considerato addirittura una premessa del lavoro, o, peggio, che venga semplicemente presunto, come può essere definito?

Un’ingenuità colpevole o, tout court, un errore metodologico?

Ebbene, su tale errore, cioè sulla presunzione di un illusorio consenso, si basa tutto (ma proprio tutto) il programma che verrà attuato in seguito, le metodiche, per un verso, ma anche gli atteggiamenti dei curanti, per l’altro verso. E’ facile infatti che, al primo, più che prevedibile, intoppo, questi ultimi considerino il paziente scarsamente collaborativo, se non addirittura “cattivo”. Senza rendersene conto, cioè, gli attribuiscono la colpa di non sapere/potere/volere compiere prima del tempo le operazioni mentali che sono l’obiettivo finale del loro intervento!

A questo punto il paziente viene o abbandonato di fatto al suo destino, perché “inguaribile”, oppure redarguito o sottoposto a moral suasion, o nuovamente istruito sulle finalità e gli strumenti del lavoro.

Il che equivale esattamente a fare una dimostrazione grafico-visiva a una platea di ciechi o a tenere una conferenza a dei sordi (non protesizzati).

Che opinione pensate che il paziente si faccia dei suoi curanti? Pensate che abbia gli elementi per apprezzarli come tecnicamente competenti e in grado di cambiare il corso della sua malattia?

O non si convince, piuttosto, di essere di fronte, una volta di più, a persone che non capiscono proprio niente di lui e che non hanno gli strumenti per aiutarlo?

E dovrebbe, secondo voi, affidarsi a loro terapeuticamente?

Il guaio è che, sempre per gli stessi motivi suddetti (collegati alla sua malattia), il paziente non è in grado (o forse non vuole? chissà!?) spiegare tutto ciò ai suoi curanti. Pretende che lo capiscano da soli, aiutati soltanto dal persistere dei suoi agìti, dalla sua bizzarria, dalla sua paradossalità, dalla distanza che mette nei rapporti con loro.

E aspetta… mesi… anni…,  come se rispettasse la loro “scelta” di non capire.

Il fatto è che, dato il grandissimo bisogno che ha di essere aiutato, vuole essere sicuro che i curanti siano all’altezza del difficile compito di fargli da “io ausiliario” (come si suol dire). E vuole che lo dimostrino col non avere bisogno delle sue spiegazioni.

Ma se invece (come è evidente) hanno bisogno delle sue spiegazioni… sono all’altezza?!

Ovviamente no. Come dargli torto?

E così si va avanti per anni e anni, dando vita a un inesauribile braccio di ferro, destinato di solito a perdurare tutta la vita del paziente.

A meno che, un bel giorno, qualcuno non capisca il gioco e gli faccia capire che ha capito.

Anche lui senza dirglielo, per una legge di doverosa simmetria! O, meglio, senza fare appello ad alcuna forma di complicità, di identificazione reciproca, di condivisione. Se glielo dicesse non sarebbe preso in considerazione e ancor meno creduto…

Bisogna capire senza spiegazioni e far capire che si è capito, ma sempre senza spiegazioni!

E’ impossibile?

 

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