La spazialità in terapia psichiatrica

Convegno della Comunità “LA CONCHIGLIA” – Monastero Bormida, 7 novembre 1998

 

di Giandomenico Montinari [1]

 

La  spazialità in terapia psichiatrica

 

Perché lo spazio?

 

L’interesse per la dimensione spaziale in terapia psichiatrica deriva dall’ipotesi di lavoro (basata su diverse e convergenti osservazioni cliniche) che una buona parte dei problemi di performance dei pazienti e forse anche molti dei sintomi, non derivino direttamente né dalla malattia nella sua globalità, né da specifici disturbi settoriali, ma che siano riconducibili a una cattiva gestione della dimensione spaziale, la stessa che rende molti dei loro comportamenti rigidi, stereotipati, privi di fluidità o addirittura, di fatto, impossibili.

Questo aspetto è particolarmente evidente, come è ovvio, nell’attività motoria: il paziente ipocinetico, inerte, irrigidito in posture coartate e innaturali, che adotta forme di andatura scimmiesca, cammina col dorso inclinato in avanti di 90 gradi, sta completamente ripiegato su se stesso, ecc., si comporta così sicuramente per i problemi generali che tutti ben conosciamo; ma anche (e forse, talvolta, soprattutto) perché non riesce a padroneggiare con sicurezza lo spazio che va oltre qualche centimetro dal proprio corpo: stare fermo in certe posizioni è dunque un modo per non abbandonare la propria nicchia di sicurezza, nicchia che poi, alla lunga, finisce per diventare, tout court, il proprio mondo. Uscirne comporterebbe per lui pericoli simili a quelli che un’altra persona immagina in una giungla impenetrabile o in un luogo deserto, estraneo e privo di punti di riferimento, mentre poter restare, materialmente, all’interno di una sorta di capsula ritenuta familiare e affidabile, sembra aumentare le proprie capacità di controllo sull’ambiente. Inutile ribadire che tale patologica ricerca di sicurezza alimenta un circolo vizioso che porta a muoversi sempre di meno per non uscire dalla nicchia e a restringere sempre di più il proprio orizzonte esperienziale, molto al di là degli effettivi limiti imposti dalla malattia.

Parecchi altri ambiti della vita del paziente, oltre a quelli che riguardano il movimento e l’attività fisica, sembrano gestiti con modalità analoghe e, alla fine, impediti dallo stesso ordine di difficoltà. Per esempio la vita relazionale e sociale, l’esplorazione di nuovi ambiti di conoscenza o l’acquisizione di nuove abilità (o la riacquisizione di abilità perdute), la dimensione affettiva, la creatività, e molte altre realtà interiori, da condividere con gli altri.

Anche queste realtà sono spazi in cui collocarsi e in cui cercare un orientamento: spazi simbolici, fatti di prospettive e di rapporti significativi, di mete da raggiungere, di luoghi da esplorare e da occupare, di aree in cui muoversi o fermarsi. Ma sono realtà che il paziente psichiatrico grave, se noi lo osserviamo attentamente, non intende affatto come spazi più o meno metaforici, ma piuttosto come entità che egli riconduce ad un’unica esperienza concreta, identificabile, in definitiva, con un vissuto di tipo corporeo.

 

Ciò è espressione di quella che tutti sappiamo essere la difficoltà fondamentale della psicosi, cioè la più o meno grave menomazione, fino alla perdita completa, delle funzioni simboliche. Egli è cioè meno capace di recepire gli aspetti simbolici delle varie attività, relativi per esempio alle valenze astratte che vi sono insite, ai significati e ai rapporti interpersonali di cui esse sono normalmente mediatrici.

L’io sofferente, infatti, perde, più o meno, la capacità di smaterializzare, trascendere e ordinare i dati dell’esperienza e tende anzi a dare carattere di immediata concretezza ai contenuti astratti; non è più in grado di operare delle sintesi complesse tra le varie componenti e compie errori di lettura e di logica nell’organizzare gerarchicamente il materiale: uno degli aspetti più evidenti di tale disorganizzazione è la perdita dei livelli più elevati del pensiero, ad elevata pregnanza simbolica, legati alla lettura e alla formulazione di messaggi, e a operazioni riguardanti l’identità, l’autonomia personale, la capacità di muoversi nel mondo e nella vita. E’ esperienza comune constatare la difficoltà che i pazienti più gravi incontrano nel “capire” il mondo, le intenzioni delle persone, i significati delle parole e dei gesti, come pure nel concepire progetti di ampio respiro riguardanti la propria vita e, in genere, di esercitare la capacità di differire nel tempo il soddisfacimento dei propri bisogni o di rifarsi ad altre persone o di integrare dinamicamente elementi e realtà diverse e divergenti.

Anche la percezione del tempo, infatti, si perde in una visione acronica (o sincronica), in cui passato, presente e futuro tendono a confondersi, in cui rimandi, successioni, scansioni, articolazioni, ecc. sono tipicamente difficili e spesso impossibili.

 

 

Spazio o corpo?

 

Lo spazio psicotico tende dunque a diventare uno “spazio corporeo”, cioè un’esperienza concreta, fortemente influenzata da tutti gli attributi della corporeità; e non già di una corporeità fine, differenziata, evoluta, bensì di una corporeità primordiale, priva di limiti, di articolazioni, di discontinuità, di gradazioni tra “più” e “meno”, tra “alto” e “basso”, tra “qua” e “là”, incapace di veicolare dei significati, come la differenza tra “mio” e “tuo” o certe finalizzazioni diversificate (“per questo”, “per quello”), e quindi soprattutto, di ricostruire il senso e l’esistenza stessa dell’altro.

Nella psicosi grave viene anche perso[2], in particolare, il significato delle relazioni spaziali tra le persone, come la vicinanza, il contatto, la distanza, che non sono più rappresentative, per esempio, di ricerca di vicinanza emotiva, di intimità (amicale, affettiva, filiale, ecc.) o, al contrario, di distacco, di dominio o di sottomissione, ma vengono messi in atto, per esempio, solo per esplorare o tentare di controllare il mondo circostante, per negare o “addomesticare” l’alterità…

Sono tutte forme, che, nella più ottimistica delle ipotesi, esprimono il tentativo di instaurare un primordiale contatto con la realtà, attraverso l’unico strumento disponibile in quella situazione; più spesso si tratta di semplici realtà di fatto, puramente inerenti alla persona del paziente stesso, inscritte in un suo codice privato e non condivisibili, oppure appiattite su significati anonimi, convenzionali, non utilizzabili ai fini di una reale comunicazione con gli altri. Affrontare queste realtà senza un’adeguata chiave di lettura, espone l’operatore inesperto al rischio di attribuire loro significati inesistenti e di fraintendere o ipervalutare certi comportamenti dei pazienti (per esempio di apparente affiliazione), con un rilevante rischio per la propria incolumità emotiva.

E’ come se ogni messaggio che perviene al paziente psicotico, compresi quelli dettati dalle nostre istanze terapeutiche, passasse attraverso una specie di filtro, che lo rende uniforme e non modulato e, contemporaneamente, lo priva di una buona parte dei significati astratti che esso normalmente veicola. Pertanto ogni nostra azione nei suoi confronti, ogni nostro comportamento, anche ricco di informazioni, diversificato, carico di sfumature simboliche, viene ricondotto a poche elementari esperienze del tipo suddetto e cioè sostanzialmente ad alcune semplici modificazioni della corporeità[3]. E’ chiaro come tutto ciò contribuisca a rendere il mondo interiore del paziente piatto e non-comunicativo, se non in un senso immediatamente fusionale.

Lo sbocco finale, comune a tutti questi problemi è l’accentuazione dello stato di inerzia, di passività, di chiusura in se stessi, che, quotidianamente, constatiamo essere tipico dei nostri pazienti.

La formazione del suddetto “spazio corporeo”, con le caratteristiche anomale e deteriori su descritte, sembra essere il punto di arrivo della destrutturazione di tutte le forme di spazialità, anche di quelle superiori, di carattere metaforico.

Si potrebbe anzi sostenere, consapevoli che si tratta di pure ipotesi di lavoro, che tale spazio patologico, una volta formatosi, diventi talmente importante all’interno dell’organizzazione dello psichismo del paziente, da fungere da paradigma, da modello negativo, e quindi in sostanza da ostacolo, per ogni tentativo di ricostruzione parziale di qualche ambito della sua vita. Cioè che la struttura della spazialità distorta sia qualcosa di molto radicato, molto persistente che impronta negativamente di sé e in definitiva blocca qualunque possibile evoluzione successiva.

Per fare un esempio, si potrebbe dire che la spazialità patologica, date le sue caratteristiche strutturali, ha lo stesso effetto frenante che ha, nell’apprendimento di qualunque disciplina sportiva, una cattiva impostazione acquisita all’inizio. Pur essendo l’allievo abbastanza evoluto e conoscendo bene, teoricamente, le figure più avanzate, non può progredire veramente, finché non riesce a sradicare, con uno sforzo preciso e mirato, quelle cattive abitudini che si trascina da quando cercava di imparare da solo i primi rudimenti della tecnica.

Lo stesso avviene per il paziente psicotico in corso di terapia. Quando, per effetto degli psicofarmaci e dell’azione rassicurante e protettiva della struttura terapeutica, certi sintomi e comportamenti difensivi non sono più necessari, quando sembra possibile avviare un programma di riorganizzazione funzionale, è facile che gli sforzi riabilitativo-terapeutici si infrangano contro un muro di natura apparentemente strutturale, costituito, più che dagli esiti della malattia in sé, da una serie di acquisizioni patologiche molto tenaci, di “cattive abitudini” (diciamo così), che, a rigore, non avrebbero più ragione di esistere.

La più importante di queste, quella che, per la sua collocazione basale, più influenza tutte le altre, sarebbe appunto la “spazialità patologica”.

Se questa ipotesi è giusta, e molti riscontri clinici lo farebbero pensare, ha senso ritenere che la prima operazione terapeutica da intraprendere col paziente psicotico sia appunto una rieducazione della spazialità, necessaria in sé, ma anche utilizzabile come base, come paradigma (questa volta positivo) per la ricostruzione di tutte le forme di spazialità superiore della persona in cura.

Questa strategia terapeutica risponde anche all’imperativo di partire sempre dai livelli effettivi di funzionamento ai quali i problemi si formano, livelli che spesso sono molto più bassi di quelli che il malato ci presenta, anche se, a prima vista e settorialmente, è in grado di prestazioni più elevate e quasi normali. Tale prudenziale presunzione di minore efficienza, oltre ad essere di solito adeguata alla realtà, ci mette anche al riparo dal grave rischio a cui siamo programmaticamente esposti, quello che gran parte dei nostri sforzi e delle nostre stesse energie personali vengano divorate, senza che ce ne accorgiamo, dal processo di estrema semplificazione comunicativa ed esistenziale del paziente.

E inoltre è chiaro che lavorare ai livelli effettivi di funzionamento è anche quello che ci permette di instaurare col paziente psicotico una vera relazione, non inficiata da esigenze di reciproca difesa, da problemi di cattiva simbolizzazione, nonché dalla fondamentale mancanza di “tridimensionalità” spaziale che fa parte della sua esperienza relazionale.

L’obiettivo è dunque mettere in atto tutte le tecniche di cui disponiamo, escogitare tutti i possibili espedienti, per tentare questa ricostruzione. A tale scopo possiamo cercare o strumenti atti ad agire direttamente ed esplicitamente sulla spazialità o strumenti in grado di agire indirettamente.

Al riguardo dobbiamo tenere presente che qualunque intervento terapeutico noi mettiamo in atto, dalla socioterapia alla psicoterapia individuale, dall’ergoterapia alla terapia psicomotoria, dall’arteterapia all’animazione ludica, pur perseguendo finalità diverse (la socializzazione, il lavoro, l’apprendimento, il gioco, la presa di coscienza, ecc.), in realtà, anche se l’operatore non ne è consapevole, lavora primariamente su questa dimensione: il solo invito, rivolto al paziente, a fare qualcosa di diverso, a muoversi (fisicamente o simbolicamente) in un ambito che non è il suo consueto, a riempire con la sua attività uno spazio dato, è già, anche e soprattutto, un intervento sulla spazialità. Se non altro perché tutti gli altri aspetti che, comprensibilmente, all’operatore sembrano così importanti e prioritari, come sentimenti, rapporti personali e sociali, espressione di sé, produzione di cose belle, ecc. ecc., incappando nel filtro di cui sopra, restano quasi tutti esclusi dall’ambito della comunicazione terapeuta-paziente, sostituiti dalle suddette esperienze, elementari e spesso patologiche, di spazialità corporea.

Quello che supera la barriera, insomma, sono solo poche semplici cose, incentrate sulla corporeità del paziente e le sue immediate adiacenze e riguardanti dei limiti o delle forme di discontinuità (sgradita e paventata) che le vengono imposte.

Di questo, noi operatori dobbiamo essere molto consapevoli, per evitare frustrazioni, malintesi e ferite spesso lancinanti.

 

Il dialogo spaziale

 

Invece di rammaricarci che il paziente non colga gli aspetti più elevati e nobili delle nostre proposte terapeutiche e la ricchezza espressiva potenzialmente insita nella relazione con noi, dovremmo sforzarci di “utilizzare le armi dell’avversario”, per instaurare qualche forma di comunicazione, che, per quanto elementare, sia reale, chiara e inequivocabile, e mirata, pur nel rispetto della sua personalità, delle sue esigenze, dei suoi tempi, a creare le premesse per una futura interazione adulta.

Onde aggirare le difficoltà di simbolizzazione che si presentano, non si tratta, semplicisticamente, di tradurre il linguaggio verbale in linguaggio gestuale o in qualche altra forma di strumento comunicativo concreto, operazioni pericolose che vanno nel senso della psicosi, ma di destrutturare armonicamente i nostri strumenti di comunicazione fino al punto da incontrare la sua indebolita capacità di lettura e da lì partire per tentarne una ricostruzione.

 

Un problema teorico imponente è individuare le linee lungo le quali operare tale destrutturazione, che io chiamo “armonica”, senza cadere in forme di semplificazione globalizzante e a-simbolica, che colludono con la psicosi o sono addirittura forme di psicosi indotta. Attraverso una serie di considerazioni cliniche e metacliniche che sono costretto a omettere in questa sede[4], ritengo che si debba muoversi lungo una linea virtuale che si colloca idealmente, a vari livelli, in un’area di equidistanza tra un polo soggettivo (profondo, infantile, non verbale, inconscio, corporeo, per l’appunto) e un polo sociale (impersonale, obiettivo, pubblico, del tutto alternativo rispetto al primo) della persona. Si tratta di realtà astratte che non esistono allo stato puro (se non forse durante il sogno, per quanto riguarda il primo polo) e che nel loro essere contrapposte e alternative formano l’asse portante dello sviluppo psichico e quindi, reciprocamente, della sua destrutturazione.

Quando, nella malattia, lo psichismo si deteriora, tale bipolarità tende a sovvertirsi e a rendere necessario un suo ripristino, come premessa fondamentale di qualunque successiva azione terapeutica. In altri termini, il ribadire una differenziazione e una messa in tensione tra privato e pubblico, tra mio e non mio, diventa indispensabile come prioritaria operazione correttiva e come strumento per gettare le basi di un ripristino dello spazio interiore, ovviamente simbolico, del paziente.

E’ interessante osservare che, a livelli di grave destrutturazione psicotica, questa stessa polarità “dentro-fuori”, che noi giustamente percepiamo di carattere astratto e di ampia portata antropologica, è anche l’unico intervento che, come detto sopra, il paziente è in grado, per quanto faticosamente, di recepire e di utilizzare in senso dialogico e terapeutico.

In pratica essa ci fornisce anzi la base di un codice elementare di comunicazione, di tipo binario (me/non-me, mio corpo/limiti posti al mio corpo, globalità/frammentazione, continuità/interruzione, ecc.), che è contemporaneamente accessibile al paziente, stimolante per la sua crescita e in linea con le finalità ultime della terapia.

Rappresenta dunque una strada percorribile, pur tenendo conto che tutti gli attributi appartenenti al secondo polo (quello pubblico, esterno, obiettivo, ecc., genericamente comportanti negazioni e limiti) sono recepiti con ansia e con difficoltà dal nostro interlocutore e vanno proposti pazientemente uno per uno.

In questa ottica si collocano tutti i tentativi seri di curare psicoterapeuticamente i pazienti psicotici. Per esempio con la musicoterapia, quando si cerca di ri-insegnare ai pazienti il ritmo, cioè l’interruzione della continuità melodica; con la socioterapia, quando si cerca di incanalare gli interessi dei pazienti in compiti di carattere “pubblico”, piccoli, ma al di là della propria persona; con l’arteterapia, quando si fa prendere vita a prodotti artistici che sono contemporaneamente parte del paziente e oggetto indipendente, disponibile per la fruizione estetica degli altri. Lo stesso discorso vale per tutte le tecniche riabilitativo-terapeutiche di solito adottate nelle strutture per malati cronici, anche se non vi è sempre una specifica consapevolezza in tal senso.

Il “dialogo spaziale” è una di tali forme di comunicazione primordiale, che, facendo riferimento ad un elementare codice costituito da: spazio mio/spazio altrui, spazio prossimo/spazio lontano, spazio chiuso/spazio aperto, spazio unitario/spazio frazionato, ecc., crea le premesse per avviare dei programmi di rieducazione funzionale non solo della spazialità, ma di tutta la personalità. Tenendo presente, è il caso di ripeterlo, che l’accesso del paziente al secondo elemento di tali binomi (“altrui”, “lontano”, “aperto”, “frazionato”, ecc.) è altamente problematico e spesso causa di profonda angoscia.

 

 

Le terapie spaziali

 

Un programma di “terapia spaziale” prevede dunque la creazione di uno, anzi di più sistemi diversi, in cui le funzioni corrispondenti a tali aggettivi, che esprimono altrettante forme dell’alterità e che sappiamo carenti nel paziente psicotico, vengono gradualmente rieducate, con estrema pazienza, con disponibilità e anche con una notevole dose di inventiva. In sostanza si deve proporre (o, meglio, talvolta, imporre) al paziente di iniziare a muoversi in un campo di tensione tra un polo rassicurante, fatto di prossimità, chiusura, unitarietà, centralità, ecc., e un polo, per lui ansiogeno, fatto di distanza, apertura, frazionamento, dispersione, ecc., con lo scopo di abituarlo a riappropriarsi di una dimensione che gli sfugge, ma che è fondamentale per cercare di ricreare le premesse per un suo processo di reinserimento nel mondo.

Il tutto si configura come una rieducazione di livello basale, come un abbozzo di dialogo interpersonale e al tempo stesso, a livelli di simbolizzazione più elevati (che, anche se fluttuanti, come già detto, non sono mai del tutto assenti), come una pedagogia di vita e una metafora del rapporto col mondo.

In pratica si possono ipotizzare, a mio avviso, tre gruppi di interventi terapeutici, consapevolmente centrati su questa tematica:

 

– Interventi corporei classici

– Interventi architettonici

– Interventi personalizzati.

 

 

A. Interventi corporei classici

 

Sono finalizzati a lavorare direttamente sulla spazialità alterata del singolo paziente, rieducandola tramite esercizi specifici.

Non mi soffermo su questo ambito, in quanto oggetto di metodologie già recepite, almeno in teoria, nella prassi terapeutica.

Esse comprendono la terapia psicomotoria, che lavora direttamente sulla collocazione del paziente nello spazio che lo circonda, sul significato dei suoi movimenti, sulla relazione con gli altri, mediata da semplici oggetti come palle, bastoni, ecc.

La musicoterapia e la danzaterapia, per la parte che riguarda, tra l’altro, l’acquisizione o la ri-acquisizione del ritmo (in quanto rottura e successiva organizzazione di una primitiva continuità melodica) o il controllo dell’ambiente fisico e del gruppo con strumenti musicali. Il ritmo permette, in certo senso, di addomesticare il fluire del tempo esterno, facendone una successione di battute uguali, così come i moduli spaziali alleviano l’angoscia di uno spazio senza limiti.

L’arteterapia, come già detto, soprattutto per ciò che si riferisce alla gestualità grafica, al modellaggio con la creta (in quanto lavoro sulla tridimensionalità), alla rappresentazione di insiemi di oggetti (come lavoro sui rapporti spaziali significativi), alla ricerca della prospettiva, e in genere al rapporto tra immagine e foglio bianco (inteso come analogon di una propria collocazione nell’ambiente circostante).

Numerosissimi altri interventi sul corpo sono possibili e di fatto attuati, anche se di solito, come già detto, esplicitamente intesi come tecniche corporeo-spaziali: gioco del pallone o qualunque altro sport, massaggi, ballo, semplice ginnastica, bagni, ecc. Con maggiore o minore consapevolezza da parte dell’operatore che le propone, oltre che di chi le pratica, sono tutte forme di lavoro sullo specifico problema che i pazienti presentano nella gestione del corpo e dello spazio.

 

 

B. Interventi architettonici

 

Sono finalizzati a lavorare sulla spazialità del singolo paziente, utilizzando come strumento la spazialità architettonica, cioè la conformazione, l’impianto, la struttura degli edifici, in cui essi risiedono e in cui la terapia stessa ha luogo.

Si tratta di procedure che hanno alle spalle una tradizione antichissima, alla quale, in questa sede, possiamo fare solo un accenno fugace, nonostante l’enorme interesse culturale e antropologico che rivestono.

 

Basti ricordare che fin dalla più remota preistoria, cioè dai primordi dell’esperienza rituale, i luoghi del sacro erano scelti in base al potere che avevano di suscitare una dilatazione dello spazio interiore dei partecipanti ai riti, attraverso l’accostamento di elementi legati alla verticalità, al cielo e di elementi legati alla terra e/o alle sue profondità, come le caverne. La stessa capanna dello sciamano (sostituita successivamente dai templi e dalle cattedrali) aveva una base quadrata (terrestre) e una cupola rotonda (celeste), collegate da un asse che si caricava di valenze sacrali proprio per questa sua funzione. Collocarsi fisicamente in questo spazio era considerata un’operazione che faceva crescere e accostava al divino.

Col trascorrere dei millenni si è passati ad una sempre maggiore concretizzazione di tali procedure, fino a farle uscire dall’ambito rituale, a profanizzarle sempre di più, fino a ridurle al rango di semplici strumenti di manipolazione. Sta di fatto che l’architettura non ha mai cessato di utilizzare gli edifici per veicolare dei messaggi di natura politica, religiosa, estetico-culturale.

Il nostro interesse va però soprattutto agli aspetti rituali originari, che sono quelli più vicini al mondo della medicina in generale e della terapia psichiatrica in particolare.

In clinica psichiatrica, tuttavia, il consapevole utilizzo terapeutico di strumenti architettonici è diventato relativamente inconsueto, perché richiede una specifica programmazione in sede di progettazione della struttura residenzialale, che, per ovvi motivi, può verificarsi solo raramente.

Pochi sono gli autori che si sono interessati specificamente a questi problemi. Hall, l’inventore della “Prossemica”[5], se ne occupa collateralmente ad altri argomenti, che sono più di carattere etologico e sociologico.

Osmond[6], tra i primi, cerca di gettare le basi di una architettura psichiatrica sistematica, proponendo per esempio dei modelli di reparto o di ospedale “a raggiera”: un grande soggiorno attiguo ai servizi medici e amministrativi e dei nuclei che se ne discostano progressivamente, lungo i raggi di un cerchio; nuclei prima più grandi, per permettere l’aggregazione di 2-4 pazienti, poi più piccoli, per permettere al singolo paziente di isolarsi dal contatto eccessivo con gli altri.

Sivadon[7] approva tale modello in linea di principio, ma ritiene di proporne delle varianti più complesse.

 

“Come Osmond, sono partito dal concetto che lo spazio doveva essere utilizzato per favorire i diversi modi di comunicazione interumana. Anzitutto l’isolamento per l'”incontro con se stesso”, poi i piccoli gruppi (da 3 a 12), poi i grandi gruppi (da 30 a 120) poi la folla (oltre 200). Queste cifre, beninteso, sono approssimative ma rispondono a realtà empiriche. I diversi gruppi così delimitati possiedono qualità del tutto differenti, che la psicologia sociale comincia a definire. Lo scopo è permettere al malato di stabilire delle relazioni con gli altri (in gruppi di differenti dimensioni) e con se stesso (solo o isolato nella folla). Perciò bisogna fornirgli la possibilità di avere questi incontri in un’atmosfera rassicurante che favorisca l’adattamento.

“La formula di Osmond tiene conto della prima necessità: una gerarchia di moduli spaziali, che permettano al malato di sperimentare le diverse modalità di aggregazione, così come l’isolamento. Ma l’espediente di raggruppare questi moduli in cerchi concentrici, per quanto economizzi al meglio lo spazio, presenta un carattere di estraneità che, unito alla difficoltà di orientamento, non favorisce il sentimento di sicurezza. Esso assegna peraltro, al piccolo spazio destinato all’isolamento, una collocazione lontana rispetto al posto dell’infermiera, aumentando ulteriormente le fonti di ansietà. Mi sembra preferibile disporre, in ogni situazione, di due serie complementari, una corrispondente allo “sfondo”, l’altra alla “figura”, cioè da una parte al quadro spaziale e dall’altra al comportamento sociale, l’uno essendo destinato a favorire l’adattamento all’altro.

“Se un malato deve essere abituato alla solitudine, conviene che la sua stanza sia in prossimità del posto dell’infermiera e che egli si senta nella sua area di sorveglianza, sotto la sua protezione.

“Se si cerca di stabilire dei contatti in un piccolo gruppo di malati, bisogna che la cornice sia tanto più rassicurante quanto meno l’attività proposta è familiare. Lo spazio rassicurante, si sa, è di dimensioni sufficientemente ristrette per essere controllato con lo sguardo: possiede pareti protettive e uscite per un’eventuale fuga. Se, al contrario, si vuole abituare i malati ad uno spazio che crea loro insicurezza si deve proporre loro, in questo spazio, una attività rassicurante: per esempio consumare il pasto in tavoli piccoli.”

 

Tra i principi fondamentali dell’approccio di Sivadon c’è il fatto che il ruolo delle funzioni mentali (e dunque la terapia psichiatrica) “si gioca tra due esigenze contraddittorie, di sicurezza (che richiede la prossimità umana) e di autonomia (che implica la distanza)”. L’abilità dello psichiatra consiste appunto nel creare situazioni terapeutiche capaci di combinare e alternare occasioni di lavoro dei due tipi.

 

“Questa zona (di maggiore protezione) è particolarmente rassicurante per il numero ristretto degli individui che si incontrano, lo spazio relativamente limitato di cui dispongono e comunque l’impressione di libertà, cioè di sfuggire alla costrizione dell’incontro. Da questa zona si scorge da lontano il centro sociale, polo d’attrazione che si desidera raggiungere ma che esige il superamento di uno spazio vasto, tramite sentieri orientati ad angolo. Da una parte la sicurezza, ma anche la noia, dall’altra l’insicurezza, ma l’attrattiva di rapporti sociali piacevoli. E’ nella possibilità di un’alternanza di queste due situazioni, la cui differenziazione bipolare è assicurata dallo spazio intermedio, che risiede, pensiamo, uno dei fattori di miglioramento comportamentale.”

 

A quanto mi consta, uno dei pochi ospedali psichiatrici concepiti in vista dell’attuazione di programmi di rieducazione spaziale è l’ospedale “Marcel Rivière”, in Francia, progettato nei primi anni sessanta da un’équipe dell’OMS, il cui principale animatore era appunto Paul Sivadon.

Moltissime sue osservazioni mi sembrano di grande interesse, teorico e organizzativo. Per esempio quelle sulla forma, la disposizione, le dimensioni degli ambienti psichiatrici più adatte a rassicurare o a stimolare i pazienti.

Gli spazi aperti sono più attivanti, sollecitano maggiore iniziativa e assunzione di responsabilità, ma creano ansia e sono temuti dai pazienti, tanto che si può sostenere che la migliore barriera per separare dei gruppi di pazienti è costituita da spazi vuoti.

Un locale completamente aperto ha, come uno spazio troppo chiuso, l’effetto di accentuare l’aggregazione e quindi la passività dei pazienti. Un giusto grado di attivazione si ottiene invece in situazioni intermedie di apertura/chiusura parziali e modulate.

La situazione di affollamento, infatti, inizialmente può addirittura risultare gradita ai pazienti, perché, comportando di fatto isolamento, destrutturazione delle relazioni interpersonali, contatto diretto di tipo gregario, processi di imitazione e quindi maggiore conformità, va nella direzione della psicosi. Alla lunga però provoca noia (anche per persone programmaticamente inerti e passive!), perdita di iniziativa, depressione.

La capacità dello psichiatra consiste, come già detto, nel trovare di volta in volta  i compromessi più adeguati.

In tutti i casi la vicinanza fisica e il contatto dell’operatore sono i fattori più rassicuranti e quelli che permettono al paziente di arrischiarsi in operazioni per lui ansiogene, ma  tali da mettere in moto una rieducazione.

Nella mia esperienza di conduttore e supervisore di strutture psichiatriche ho potuto constatare la giustezza di molte delle affermazioni di Sivadon, anche se mi rendo conto che talvolta, in operatori poco esperti, esse possono favorire la convinzione che il fattore architettonico da solo possa permettere la messa in atto di certe operazioni terapeutiche sulla spazialità dei pazienti. In realtà tutti sappiamo, come è ovvio, che il rapporto terapeutico può, sì, avvalersi di tutte le possibili tecniche e di tutti i pensabili mediatori, ma non può che essere primariamente un rapporto interpersonale.

Nella struttura che ho potuto personalmente progettare anche negli aspetti architettonici, il Centro di Socioterapia Daily, operante a Genova dal 1973 al 1981, tutto ruotava attorno ad un grande salone centrale di 100 mq. circa, con pavimento di cotto (cioè con una tonalità calda) e un antico soffitto a volta. Nonostante le rilevanti dimensioni, atte a contenere comodamente molte decine di persone (numero necessario, a mio avviso, a rendere la comunità simile ad una microsocietà), doveva sembrare piccolo, raccolto e molto accogliente (come si conviene al living di una famiglia). Il piano superiore era invece a pianta longitudinale, con un lungo corridoio su cui davano, a destra e a sinistra, le varie stanze: esso suggeriva l’idea di una separazione tra le persone, per il raggiungimento di una certa privacy, stemperata però dall’esistenza, al fondo del corridoio, della sala medica, il punto più protettivo di tutta la struttura.

Aspetti “pubblici” e “privati”, “paterni” e “materni” erano attentamente bilanciati, in modo che nessuno prevalesse sugli altri, e abbinati in maniera tale da creare sempre delle situazioni di relativa tensione, che costituivano l’asse portante, la struttura ideologico-terapeutica della comunità.

L’impianto architettonico (volutamente unitario, in quanto fattore “materno” di partenza e come riferimento “escatologico” all’unità dell’Io, cioè come obiettivo finale proposto a persone dissociate) era a sua volta in tensione con l’impianto organizzativo, che prevedeva invece numerose suddivisioni in gruppi e sottogruppi, rappresentazione intraistituzionale del pluralismo di funzioni della società esterna ed espressione del frazionamento che andava quotidianamente perseguito per tentare di riorganizzare l’unità indifferenziata del me psicotico.

La struttura era chiusa e circondata da un recinto, ma non perfettamente, nel senso che nella rete di recinzione c’era una piccola soluzione di continuità (nascosta, ma nota ai pazienti) che ne disconfermava paradossalmente l’esistenza[8], col risultato di dare attuazione al principio di una chiusura solo in parte completa e reale, da ricreare dinamicamente in ogni momento, in maniera simbolica e consensuale.

Non so quanti di tali messaggi, in realtà, arrivassero ai pazienti in questi termini; certamente tutto l’impianto esprimeva un desiderio di equidistanza tra i vari poli, che non poteva non essere, alla lunga, costruttivo.

C. Interventi personalizzati

 

Si tratta di interventi messi in atto per singoli pazienti in momenti particolari. Non sono inconsueti nella pratica clinica, ma di solito vengono adottati senza la consapevolezza delle implicazioni spaziali che contengono.

Mi riferisco per esempio a esperienze di contenimento fisico (tipo la classica camicia di forza), o a esperienze di limitazione dei movimenti e della stessa libertà personale che avvengono, per esempio, nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, nel corso dei trattamenti sanitari obbligatori.

Numerosi di questi interventi sono di solito intesi in senso punitivo o come una necessità di fatto, imposta dall’esigenza di salvaguardare il paziente e chi gli sta intorno dalle sue istanze distruttive.

In realtà si tratta di procedure, che, se ben condotte, sono forme di terapia nel senso più completo del termine.

La forte limitazione dello spazio personale, a dispetto dell’apparenza, è estremamente rassicurante per pazienti acuti (con fantasie di distruzione del mondo intero) e per pazienti con forti impulsi autolesivi.

Il fatto di sentire il proprio corpo circondato e contenuto energicamente, esime la persona dal provvedere al compito, per lui molto difficile in quel momento, di delimitare autonomamente il suo spazio interno, cioè il suo corpo, dall’esterno. La barriera dentro/fuori si materializza e funziona in maniera concreta e obiettiva, senza necessità di mediazioni simboliche, senza sforzo e senza possibilità di cedimenti, il che configura la più essenziale e diretta delle terapie psichiatriche.

Lungi dall’essere avvertito come una violenza, è percepito dal paziente come un essere esonerato dal doversi confrontare con lo spazio esterno, che egli ancora meno del solito, in quel momento, è in grado di padroneggiare. Il suo vissuto interiore è in realtà quello di un forte intervento di tipo materno. L’efficacia psicoterapeutica è legata alla capacità degli operatori di far assumere al contatto tra il bambino inerme (rappresentato dal paziente) e il mondo esterno, duro, ma non distruttivo, la qualità di un dialogo nel senso esposto sopra, finalizzato alla crescita della persona. In effetti la durezza della contenzione può essere ridotta a mano a mano che la barriera dentro/fuori torna ad essere interiorizzata, cioè assunta simbolicamente e necessita meno di venire ribadita concretamente dall’esterno.

Esperienze simili a queste possono essere tentate anche con pazienti non agitati o non acuti, ma in stato di grave regressione psicotica.

Interventi di limitazione/espansione dello spazio personale possono e devono essere progettati espressamente per il singolo paziente, partendo dalle sue particolari esigenze. Le forme più attuabili consistono per esempio nel definire puntigliosamente distanze e tempi delle uscite autonome del paziente dal luogo di terapia, ritualizzandone frequenza, modalità, fini, ecc.: questo sortisce il duplice effetto di fargli sentire fortemente la protezione da parte dell’operatore responsabile e di rendere lo spazio, oggetto di “esplorazione”, sempre meno estraneo e incontrollabile. A lungo andare quello spazio, ormai noto, diventa parte di lui e costituisce la premessa per nuove, più ampie esplorazioni.

La presenza e la maggiore o minore vicinanza dell’operatore sono sempre determinanti, come fattori di rassicurazione “materna” e forme di “io ausiliario”, che permettono di compiere operazioni motorio-spaziali altrimenti improponibili.

Interventi analoghi possono essere effettuati negli spazi interni, cioè, per esempio, nelle camere dei pazienti, collaborando con loro a renderli più puliti, gradevoli, personali, nella convinzione che gli sforzi fatti per ordinare l’ambiente più vicino alla persona sono fatti anche (simbolicamente) per contribuire a mettere ordine nella sua personalità e nella sua vita.

In tutti i casi il problema è quello di modulare e far evolvere questi interventi, in funzione delle acquisizioni del paziente, e renderli fin dall’inizio forme di “dialogo spaziale”, con le modalità esposte all’inizio.

Se tale acquisizione di idonei strumenti di controllo sull’ambiente procede nel modo previsto, si osserva subito nel paziente non solo un miglioramento psicomotorio, ma anche e soprattutto una crescita delle capacità di funzionamento superiore dell’io. Tale crescita globale, come conseguenza di una rieducazione parziale e periferica della persona, non è facilmente spiegabile nell’ambito di una visione meccanicistica, che si aspetta i risultati solo nell’ambito della funzione su cui si è lavorato. Diventa invece chiaramente spiegabile se ci si rende conto che, nella terapia delle psicosi, il rieducare funzioni e il ripristinare abilità sono uno strumento prioritario per consentire all’io di esprimere le proprie potenzialità residue, in gran parte sopite.

 

 

 

 

         Appare sempre più chiaro che la spazialità si configura come una dimensione fondamentale dello psichismo umano, qualcosa con cui l’umanità ha fatto i conti a partire da epoche antichissime. Riscontri di ciò possono essere trovati con grande dovizia nella ritualità e nella storia dell’architettura (collegate tra loro i maniera inscindibile), al punto che si può legittimamente sostenere che considerazioni di tipo spazio-rituale hanno costituito la struttura e il propulsore fondamentale dello sviluppo dell’architettura tout court, molto più che esigenze di tipo pragmatico e utilitaristico.

            Gli antichi erano già perfettamente consapevoli di quest’ordine di problemi e consideravano scontato che ogni edificio, ma soprattutto un edificio adibito al culto o alla residenza di un capo civile e/o religioso dovesse essere una sorta di cosmografia, cioè che dovesse avere in sé (e mostrare a tutti) le dimensioni basilari dell`umano, nel suo rapporto col cosmo e col soprannaturale. Per esempio il fatto di accostare una base quadrata (elemento “paterno”, che taglia, organizza e contiene la terra-madre) con una cupola rotonda (un elemento soprastante, unificante e trascendente, che possiamo considerare lo spirito) era non solo un simbolo, ma un duplice abbinamento (una sorta di conjunctio[9], in termini junghiani, tra “padre” e “madre” e tra materia e spirito) ritenuto capace di creare sacralità e favorire un trascendimento spirituale (come tutti i mandala che ne sono derivati).

            Anche nella tradizione sciamanica, la più remota che si riesca a ricostruire, la capanna dello sciamano ha una base quadrata e un tetto rotondo, collegati da un palo che simboleggia il movimento dello sciamano dal mondo terreno a quello degli spiriti. Questa formulazione che noi siamo abituati a collegare a fenomeni di trance (magari indotti da droghe) o a comportamenti più o meno manipolativi, volti a impressionare persone ignoranti, va invece intesa, a me sembra, come un modo per rendere concretamente comprensibile il lavoro che lo sciamano fa lungo la dimensione del simbolico, cioè la lettura, la comprensione profonda dei fatti, la capacità di muoversi su e giù tra astratto e concreto, che è la funzione fondamentale dell’Io. Accostarsi al palo e toccarlo era comunque accreditato di avere, di per sé, un valore sacrale.

            Le piramidi, i templi greco-romani e bizantini come S. Sofia a Istambul, le cattedrali gotiche ecc., non sono che variazioni su questo tema, che nella cultura occidentale contemporanea (con eccezione della tradizione massonica, che esplicitamente – come dice il nome – collega sapere iniziatico e architettura) si è pressoché perso, mentre forse permane ancora, in piccola misura, in quella orientale[10].

            Se è legittimo fare accostamenti tra precursori così antichi e grandiosi e le piccole realtà terapeutiche in cui operiamo, la nostra organizzazione deve incorporare in sé qualcosa di queste eterne tematiche, che riflettono tuttora la struttura portante del nostro modo di essere e di pensare. Anzi, proprio nello sforzo di ricostruire, quasi da zero, lo psichismo devastato dalla psicosi, è importante disporre di coordinate strutturali semplici e certe, che ci aiutino a difenderci da una pericolosa perdita di punti di riferimento.

            Per tali motivi abbiamo ritenuto ineludibile, parlando della spazialità psichiatrica, un discorso di tipo antropologico-culturale.

            Abbiamo avuto la fortuna di entrare in contatto col Prof. Satti, docente della Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, che da anni si occupa di antropologia dello spazio (la sua materia di insegnamento), ed è anche interessato alle interfacce tra queste tematiche e la psichiatria.

            Lo abbiamo perciò invitato a parlare di “Spazio e terapia nell’ottica antropologico-culturale”

 

 


[1] Psichiatra, psicoterapeuta, consulente di strutture terapeutiche residenziali.

[2] Va precisato che quando si parla di perdita, non si intende una perdita né totale né definitiva: ci si riferisce anzi a funzioni fluttuanti che possono aumentare e diminuire in situazioni, contesti, periodi di tempo diversi. Ciò contribuisce a creare all’osservatore/interlocutore del paziente notevoli difficoltà, in quanto, essendo sempre diverso il livello di integrazione al quale egli sta operando in un particolare momento, è facile che la stessa affermazione di uno dei due venga fatta o capita in maniera completamente diversa da un momento all’altro. La stessa frase, per es.: “Dottore, mi aiuti!”, da un giorno all’altro può voler dire “mi aiuti a mettere ordine nella mia vita” (formulazione astratta e pertinente) oppure “risolva lei i miei problemi di vita quotidiana” (formulazione concreta e non pertinente). Situazioni analoghe si verificano, reciprocamente, per affermazioni del terapeuta. Per esempio, la stessa frase “io voglio aiutarla” può essere inteso dal paziente, a seconda del suo stato del momento, in modo simbolico o in modo concreto, con implicazioni operative completamente diverse.

[3] Ciò trova riscontro nella tendenza del paziente grave ad esprimere tutti i propri bisogni emotivi (e il loro soddisfacimento), tutta la propria dinamica esistenziale e la propria stessa visione del mondo in termini di richiesta di sigarette o di pillole o di cibo e di poche altre semplici cose.

[4]Rimando chi fosse interessato all’approfondimento di queste tematiche ai miei libri Il buco nella rete, Ed. ECIG, 1990, L’agnello e la scure, Ed F. Angeli 1998, La malattia istituzionale dei gruppi di lavoro psichiatrici, Ed. F. Angeli 1998

[5] Hall, E.T.: Proxemics, Doubleday, New York, 1959. In italiano: La dimensione nascosta, Ed. Bompiani, 1968.

[6] Osmond: Psychiatric Architecture , Ed. C. Goshen, Washington, 1959.

[7] Sivadon, P.: La rééducation corporelle del fonctions mentales, Ed. ESF, Parigi, 1969.

Sivadon, P.: Architecture psychiatrique. Principes. Tendences actuelles. E.M.C., Psychiatrie, 37925 A 10, 1968.

[8] Da qui il titolo del mio già menzionato libro Il buco nella rete, che descrive appunto questa esperienza.

[9]Conjunctio: concetto di derivazione alchemica, impiegato da Jung in riferimento all’unione di sostanze dissimili, al matrimonio di opposti, il cui frutto è la nascita di un nuovo elemento. Nel campo della psiche simboleggia un modello di relazioni tra due fattori inconsci di segno opposto, da cui scaturisce una trasformazione.

[10]Vedi, a questo riguardo, GUÉNON, R.: La Grande Triade. Ed Adelphi, 1991.