La temporalità in terapia comunitaria

La temporalità in terapia comunitaria

di Giandomenico Montinari

Convegno della Comunità “LA CONCHIGLIA”

“LA COMUNITA’ E I SUOI TEMPI” – Monastero Bormida, novembre 2001

 

Il lavoro sulla temporalità, da sempre uno degli strumenti di intervento più utilizzati in terapia psichiatrica, basa la sua efficacia e ha la sua ragion d’essere nell’esistenza di due diverse forme di rappresentazione del tempo: un tempo “interno”, privato, soggettivo, indefinito, con le caratteristiche del tempo onirico o mitico e un tempo “esterno”, definito, lineare, obiettivo, che possiamo chiamare “pubblico” per sottolinearne il carattere di condivisione con gli altri o “storico” per ribadire l’irripetibilità degli eventi che lo costituiscono.

Queste due diverse modalità di vivere il tempo normalmente sono sinergiche e collaborano, con la loro integrazione, a costituire la temporalità sana. Molte volte invece e regolarmente in situazioni di patologia, le due modalità si disgiungono e danno luogo a forme simmetriche e più o meno persistenti di temporalità patologica.

Cioè creano ambiti circoscritti, in cui ricordi, individuali e collettivi, consapevoli o inconsapevoli, recenti e remoti o addirittura ancestrali, non rimangono dinamicamente in relazione col presente (essendone modificati), ma anzi conservano o accrescono una loro immutabilità tipica, che tende a trasmettersi, senza mediazione, in comportamenti irriflessi, ripetitivi e ingiustificati, come sono i sintomi nevrotici (per esempio delle fobie).

La rappresentazione mitizzata di alcuni momenti del passato produce così dei nuclei organizzatori di patologia.

Pertanto, come aveva capito già la prima psicoanalisi, lavorare sulla temporalità e con la temporalità, vuol dire muoversi al livello stesso al quale i fenomeni patologici (i sintomi nevrotici) si formano, con discrete probabilità, quando le cose vanno bene, di correggere i meccanismi deviati che sottendono alla loro formazione.

Ho individuato alcune modalità di intervento terapeutico che si muovono e operano in questo differenziale di rappresentazione, accentuando, a seconda dei casi, lo iatus o riducendolo, creando separazioni o promuovendo confronti, e sfruttando comunque in vario modo la diversità delle leggi di funzionamento dei due ambiti su menzionati.

Citerò alcuni esempi.

 

1) Un frequente uso terapeutico della temporalità è quello delimitativo, basato sul principio che circoscrivere cronologicamente, cioè dare un inizio e una fine predeterminati a certe situazioni come per esempio a quella psicoterapeutica (nel senso della singola seduta o del ciclo di sedute) rende i suoi contenuti avulsi dal contesto normale e cambia sostanzialmente la qualità di ciò che si verifica al suo interno. Per questo, in psicoterapia, il tempo (cioè la durata predeterminata di una seduta) è uno dei principali fattori utilizzati per costruire il setting terapeutico.

La delimitazione del tempo funziona proprio perché, dal momento in cui viene istituita, fa emergere e accentua il differenziale tra la rappresentazione del “tempo interno” e quella del “tempo esterno”. E’ lo stesso meccanismo per cui fatti e personaggi diventano facilmente mitici, quando fanno parte di un’altra epoca (cronologicamente lontana, qualitativamente diversa e, per qualunque motivo, irripetibile), come i vari “amarcord” legati all’infanzia di ciascuno di noi o a situazioni che non ci sono più.

L’immersione nel setting psicoterapeutico opera uno scollamento e fa prevalere, per un certo periodo, il tempo interno, quello con una forte caratterizzazione in senso mitico – onirico, provvisto di tutte le peculiarità di funzionamento che gli competono e che costituiscono l’essenza delle sedute di psicoterapia. Ricordare, rievocare fatti antichi, rivivere l’infanzia e i suoi personaggi, sognare insomma, dimenticando il presente, è ciò che si cerca di ottenere dalla persona in analisi, almeno in prima istanza, contrastando la sua tendenza a restare attaccato all’“hic et nunc”, e a resistere all’induzione regressivante del terapeuta.

Lo stesso meccanismo, attivato proprio dalla delimitazione temporale, viene utilizzato, da sempre, nei riti, negli spettacoli, nello sport ecc. e, più recentemente, nella pubblicità (per esempio negli spot, in cui per un attimo viene imposto/concesso di pensare cose irreali e di far vivere i sogni, legando poi l’attuazione del sogno, al momento dell’uscita, al prodotto reclamizzato). La delimitazione temporale (e quindi l’apertura e la chiusura dello spot) è fondamentale perché tutto il processo si verifichi.

Anche in psicoterapia sono proprio l’apertura e la chiusura delle sedute e del ciclo di terapia nel suo insieme (cioè interventi temporali) i punti critici (o “liminali”, come si dice in antropologia culturale) intorno ai quali l’effetto del trattamento prende corpo.

La creazione del setting è funzionale ad un altro fondamentale intervento temporale messo in atto nelle psicoterapie.

 

2)    L’attualizzazione – rievocazione del mondo mitico personale.

E’ il tipo di intervento classico su cui sono basate quasi tutte le psicoterapie. Creare un setting in psicoterapia è un modo per evocare certi fantasmi, cioè scene, personaggi, ricordi divenuti mitici ed entrati a far parte di un mondo senza tempo, avulso dallo scambio continuo con l’hic et nunc, non mentalizzabili e quindi inconsapevoli, ma non inattivi, anzi proprio per questo estremamente condizionanti.

Nel momento stesso in cui questi fantasmi sono evocati, automaticamente entrano nel tempo attuale. Far emergere contenuti antichi, parlarne, attualizzarli, condividerli dà corpo al secondo tipo di interventi temporali, che prevede che le due forme di rappresentazione del tempo (quella avente gli attributi del mito, fissa, figurativa, autocentrata, non attuale e non relazionale ecc., e l’altra, parcellare, tendenzialmente concretistica, attuale, mutevole, dipendente dal contesto e orientata all’azione, o, talvolta, all’agire) vengano giustapposte in una sorta di confronto, in cui il mito personale del paziente è costretto a definirsi e ad essere condiviso da altri, cioè ad entrare nella storia.

L’incontro/scambio tra questi nuclei senza tempo e l’hic et nunc della realtà esterna, ottenuto in vari modi (narrazione, rievocazione recitativo – rituale, drammatizzazione, la stessa indagine psicoanalitica e l’interpretazione dell’analista) è finalizzato a un’operazione relativamente inconsueta, la forzata collaborazione tra le due modalità di pensiero parallele, perché ormai disgiunte e divenute incompatibili. Essa costringe l’Io a compiere un lavoro di mediazione e di sintesi che riproduce in qualche modo le condizioni primordiali di formazione del pensiero, ma a cui l’Io stesso, a causa della patologia, non è più preparato: può aggravare la sua impotenza funzionale oppure riespanderne le possibilità; essere il punto di partenza di processi di cambiamento oppure un ulteriore incentivo a sfuggire alla realtà in favore di rappresentazioni mitiche della realtà.

 

La drammatizzazione del mito è parte integrante dei riti religiosi da tempi immemorabili fino alla sacra rappresentazione, greca o medievale, finalizzate alla purificazione (Aristotele la chiamava catarsi) degli spettatori, fino all’odierno psicodramma: quando, nell’area del rito terapeutico, con strumenti recitativi, riusciamo anche per un attimo a rendere presente ed attuale il mito (di per sé destinato ad essere immateriale, a-storico e quindi irrappresentabile) e a viverlo o addirittura a entrarci dentro, prendendo contatto con un personaggio significativo (come avviene, tipicamente, nella Messa cattolica, per esempio durante la comunione), avvengono dei fenomeni importanti che possono avere forti effetti trasformativi sull’individuo, se l’intenzione e la volontà degli officianti e degli astanti sono fortemente orientate in tal senso.

La precisazione è importante perché l’operazione “teatrale” non è automaticamente terapeutica, ma se fatta male tecnicamente o condotta in maniera intenzionalmente manipolativa, può avere l’effetto opposto, quello di rendere mitica la realtà oppure di rinforzare ulteriormente la fissità del mito preesistente, aumentando la dipendenza dell’individuo dalla sfera mitica, anziché la sua autonomizzazione.

Tutti, d’altra parte, constatiamo la potenza dei media nello spettacolarizzare e quindi nel rendere mitici fatti di cronaca (anche negativi) che meriterebbero invece di esser affrontati in termini attuali e reali: un’operazione di segno esattamente opposto rispetto alle potenzialità attualizzanti e trasformative del mezzo teatrale – terapeutico.

Ogni forma di rievocazione – narrazione è coinvolgente, perché dà forma e tempo (magari arbitrari, non importa) a fatti aleggianti in un limbo di indeterminazione e di inafferrabilità e destinati a restare tali, talora piacevoli, talora inquietanti, in molti casi patogeni. Il lavoro sul tempo diventa psicoterapeutico quando opera una parziale storicizzazione e drammatizzazione di questi contenuti, riportandoli al “qui ed ora”, fornendoli di struttura e di intelligibilità, di concretezza e di tangibilità. Si tratta, beninteso, di operazioni “innaturali”, di forzature, che finiscono per avere una forte valenza terapeutica, in parte perché circoscrivono, delimitano e quindi contengono spazio – temporalmente, in parte, soprattutto, perché impongono all’Io di fare un lavoro dotato di un preciso effetto stimolante ma ormai divenuto inconsueto.

Per inciso si può dire che anche l’arte figurativa acquista tridimensionalità e attinge il suo pathos dal fatto di far convivere un contenuto e uno stile espressivo mitico (prendiamo per esempio una Madonna di Giotto, in parte simile a un’icona, destinata a suggerire uno stato d’animo estatico di rapporto con l’eternità) con aspetti realistici e con una presa di contatto (emotiva, visiva, tattile) con l’osservatore attuale.

E non si creda che si tratti di scoperte degli ultimi millenni! Già nelle famose pitture parietali dei nostri progenitori di trentamila anni fa si è dimostrato che la giustapposizione tra bisonti (o cavalli) stilizzati e irreali e gli stessi animali rappresentati realisticamente, nell’ambito, per esempio, di scene di caccia, non è dovuta al successivo riutilizzo, a distanza di millenni e con mutati criteri stilistici, dei siti e delle pitture stesse, ma è contemporanea e, con tutta probabilità, intenzionale e consapevole! La filosofia che sottende a questa concezione artistico – cerimoniale è evidentemente quella di sottolineare gli effetti legati all’attualizzazione del mito e di sfruttare ritualmente la particolare “tridimensionalità” spazio – temporale e il coinvolgimento emotivo che ne consegue.

 

In pratica attualizzare un mito privato, parlarne, vivisezionarlo, drammatizzarlo, ecc., vuol dire rendere consapevole, pubblico e condivisibile qualcosa che per sua natura sarebbe destinato a restare soggettivo, incondivisibile e addirittura inconsapevole. L’efficacia dell’intervento consiste nella dilatazione delle funzioni dell’Io che questa operazione “impossibile” esige ed impone.

 

3) Un altro uso terapeutico – rituale del tempo è quello che chiamerei di tipo predittivo, basato sul potenziale divinatorio – “profetico” di certi segni e del materiale proveniente da ambiti che adesso chiamiamo inconscio e che una volta (in maniera certamente meno riduttiva) erano chiamati divini.

Gli antichi aruspici operavano le loro divinazioni (importantissime ancora in epoca storica e con rilevanti implicazioni giuridiche e amministrative: fondazioni di città, inizio di guerre o di imprese varie, ecc.) creando spazi specifici provvisti di valenza sacrale. Gli eventi che si verificavano in quello spazio particolarissimo, letti e interpretati, assumevano un valore predittivo, perché ritenuti la manifestazione parziale e in codice, ma diretta, di una volontà “altra”, profonda e nascosta, ma più vera e più potente e quindi destinata a prevalere. Gli antichi avevano insomma l’idea che esistesse uno iato, una distanza tra intenzioni consapevoli e dichiarate e una volontà sottostante incontrollabile, accreditata di essere “divina”. Il problema era creare le condizioni perché questa volontà si manifestasse e perché, una volta manifestatasi, potesse caricarsi di significato, per orientare l’azione.

Anche in psicoanalisi e in psicologia proiettiva (per es. nel Rorschach) si possono utilizzare segni, azioni, espressioni, quando sono ritenute primariamente prodotte da uno psichismo incontrollato dalla volontà e dalla consapevolezza, come collegate con la storia della persona (relazioni precoci, traumi infantili, carenze di vario tipo, ecc.). Oppure, contemporaneamente, collegate col suo futuro, considerandole anticipatorie di quello che avverrà, in base al principio che certi atti, come tutta la strategia di vita di una persona, finiscono per essere improntate da determinati informatori inconsapevoli profondi. Quindi un gesto, una parola, un vissuto, fatti emergere in apposite situazioni test (ovviamente artificiali e facilitanti, ma paradigmatiche), essendo regolati dagli stessi fattori che regolano l’intera vita della persona, ci indicano, debitamente interpretati, la possibile traiettoria di vita della persona stessa. Certe manifestazioni dell’inconscio possono dunque assumere un carattere programmatico – progettuale o, se vogliamo, profetico e fungere da linea – guida di un percorso terapeutico.

Nella tradizione popolare c’è da molti secoli la consuetudine di leggere fatti accidentali (tipo il gatto nero che attraversa la strada, ecc.) e soprattutto i sogni, considerati in grado, qualche volta, di far vincere al Lotto, ma anche di prevedere eventi che succederanno al soggetto (cioè che saranno da lui stesso inconsciamente provocati) in base alle medesime determinanti che hanno dato vita e forma al sogno.

In sostanza si sfrutta la sincronia, cioè la continuità e la contemporaneità a-storica del pensiero analogico, per muoversi longitudinalmente nella vita passata, presente e futura della persona, prendere contatto con antichi traumi, prevedere future evoluzioni, ecc.

Il problema è farlo emergere e saperne tradurre i contenuti, dal linguaggio figurativo in cui sono formulati, notoriamente ambiguo e polisemico, a uno più positivo, univoco e concreto.

 

Esistono sicuramente, oltre a questi, molti altri impieghi terapeutici della temporalità.

Come si vede l’ambito è vasto e interessantissimo: non lo approfondisco oltre, perché nessuno di tali impieghi, né quello delimitativo, né quello rievocativo, né quello predittivo, né altri che possiamo pensare e che pure ci sono utili in altri contesti terapeutici, ci aiuta a curare i nostri malati all’interno delle comunità.

Il motivo è che la malattia di cui noi prevalentemente ci occupiamo, la schizofrenia, colpisce proprio le funzioni che collegano i vissuti e le emozioni del mondo interno a quello esterno e, tra le varie funzioni, soprattutto quella della temporalità.

Sappiamo che il tempo dei nostri pazienti in comunità ha permanentemente le caratteristiche strutturali del tempo onirico o mitico: è statico, circolare, autocentrato, avulso dalla storia, non parte e non arriva da nessuna parte e tende ripetere se stesso senza entrare nel fluire lineare e quindi irripetibile (come diceva Eraclito, parlando del famoso fiume in cui non ci si può bagnare due volte) del tempo comune.

Va aggiunto però che ciò è vero solo in astratto, nel senso che, certamente, la schizofrenia cronica, in generale, tende a far coincidere il tempo del paziente con una concezione acronica – sincronica, statica, ripetitiva, priva di discontinuità e quindi di possibilità di sviluppo. Ma, nella realtà clinica e nella convivenza quotidiana con i pazienti, quello che ci crea i maggiori problemi è piuttosto la loro variabilità e incostanza nell’adottare, in circostanze e momenti diversi, un modo o l’altro di intendere il tempo, sicché non sappiamo mai esattamente a quale concezione il nostro interlocutore sta facendo riferimento, per così dire, in quella particolare situazione.

Qualche paziente rende il tempo puntiforme, per esempio quando passa all’atto per incapacità di differire il soddisfacimento di un bisogno o semplicemente mostra di non distinguere cose avvenute ieri da fatti di dieci anni fa.

Qualche altro (o lo stesso in un altro momento) dà corpo a situazioni che sembrano l’attuazione concreta del suo bisogno di fermare il tempo e di vivere in una dimensione in cui nulla succede e in cui tutto è in relazione o dipende da sentimenti e ricordi formatisi in un passato remoto e rimasti cristallizzati.

Altri ancora, invece, hanno tempi lenti, lunghissimi, ma non assenti. Come i tempi geologici: tutti noi tendiamo a pensare che i movimenti della crosta terrestre che hanno portato alla formazione delle montagne e dei continenti abbiano avuto luogo in epoche lontanissime e in maniera breve e catastrofica. Nessuno di noi si accorge che quasi tutte le montagne continuano a formarsi sotto i nostri piedi, in base agli stessi movimenti che ne hanno provocato la formazione in passato e che sono tuttora in corso, per lo più con la stessa velocità e le stesse modalità di allora. Solo che preferiamo non pensarci, perché la cosa ci disturba e ci convinciamo che il paesaggio sia fermo.

Nel rapporto con i pazienti schizofrenici talvolta succede lo stesso, nel senso che noi identifichiamo l’estrema lentezza con una perdita del senso del tempo, senza renderci conto che quel particolare paziente sta lavorando molto più di quello che noi crediamo, solo che lo fa con cadenze diverse dalle nostre e certo molto lentamente.

In molte altre situazioni, invece, gli stessi pazienti mostrano un senso del tempo assolutamente normale, anzi un tempismo invidiabile.

La nostra difficoltà è quella di capire in ogni momento, in tempi reali, per l’appunto, quale uso il singolo paziente sta facendo della temporalità, se onirico o realistico, se personale o pubblico, se normale o fortemente patologico.

Ma questa stessa difficoltà è una misura di quanto tale funzione sia lesa in loro e quanto necessiti, prima di tutto, di una rieducazione.

I possibili interventi di “terapia temporale” delle psicosi vanno intesi come primariamente di tipo rieducativo; sono numerosi: possiamo raggrupparli, per comodità, utilizzando lo stesso schema abbozzato prima per le psicoterapie, tenendo però presente che hanno approcci, modalità, scopi diversissimi.

 

1. Interventi basati sulla delimitazione del tempo, intesa come lavoro di contenimento e di differenziazione dei singoli ambiti temporali. Sono interventi che cercano di stimolare la capacità del paziente di funzionare in maniera diacronica anziché acronico – sincronica, come è tipico dei nostri malati, scontrandosi con uno dei problemi fondamentali del pensiero psicotico, che è proprio la difficoltà di distinguere chiaramente il prima e il dopo, così come il mio e il tuo, il tutto e la parte, ecc..

Molti approcci rieducativo – terapeutici funzionano in senso delimitativo: alcuni hanno luogo all’interno di terapie specifiche come le terapie cognitive, la musicoterapia, la danzaterapia, ecc.. Ma la maggior parte avvengono spontaneamente, senza che gli operatori vi pongano un’attenzione particolare. Vanno dal semplice invito al rispetto degli orari e dei limiti della comunità, all’invito (talvolta necessariamente piuttosto energico, come ben sappiamo) a rimandare il soddisfacimento dei bisogni, fino a molte altre forme di riapprendimento di modelli di comportamento in cui la temporalità privata e quella pubblica sono integrate e sinergiche.

Anche i colloqui psicoterapeutici, come tutte le terapie e tutte le attività impiegate nel contesto comunitario, sono utili in questo senso, essendo però usati – bisogna esserne consapevoli – sul filo di una improprietà paradossale, cioè non per i loro contenuti tecnici specifici, ma, prima di tutto, per il rinforzo che operano della sopita capacità del paziente di far iniziare e finire qualcosa di emotivamente importante per lui e poi, dopo un certo lasso di tempo, di farlo ricominciare e nuovamente finire. Cioè per il loro effetto di rieducazione alla diacronia.

L’improprietà paradossale consiste nel fatto che il setting psicoterapeutico non serve a delimitare dal di fuori uno spazio protetto interno da adibire alla regressione, bensì, con un’operazione di segno contrario, a mettere dei limiti al dilagare dello spazio interno, fungendo da strumento di contenimento e, appunto, di rieducazione dell’utilizzo delle scansioni temporali. I colloqui in comunità funzionano prima di tutto perché il paziente valorizza, dell’impianto psicoterapeutico, più gli aspetti esterni e strutturali che quelli intrinseci e di contenuto. Per esempio le cose che più lo aiutano, almeno all’inizio, sono proprio quegli elementi di contorno, di costruzione del setting che normalmente, in pazienti meno gravi, vengono dati per scontati: la frequenza delle sedute, la puntualità, il riuscire a concentrarsi per mezz’ora, l’imparare a disciplinare i propri impulsi ed esprimere adeguatamente i propri sentimenti, ecc.

 

 

2. Anche l’attualizzazione – rievocazione viene usata non in senso “teatrale” o psicodrammatico come riattualizzazione rituale di un mito personale o famigliare, bensì in senso pedagogico, come una adeguata ricostruzione di successioni temporali del passato recente e remoto, che nei pazienti sappiamo essere spesso alquanto vacillanti. Facendo anche in questo caso un’operazione di segno opposto a quella della psicoterapia, è importante prima di tutto ristabilire i confini e la giusta distanza tra i ricordi personali e i miti interiori (cioè eventi divenuti tali) da una parte e l’hic et nunc della realtà, ripristinando giuste gerarchie e opportune priorità. Il che può essere fatto anche con la teatroterapia, beninteso! E’ solo diversa, anzi opposta, la direzione dell’intervento terapeutico.

Anche la narrazione viene qui usata sul filo del paradosso, non come attualizzazione ricostruttiva del passato, ma come strumento di definizione di quello che appartiene al passato rispetto a quello che appartiene al presente.

3. Gli approcci di tipo predittivo, nella terapia delle psicosi sono anch’essi del tutto particolari, nel senso che non mirano a stabilire una correlazione e addirittura un nesso causale (in ambedue i sensi) tra le dinamiche interne del paziente e la sua vita passata, presente e futura. Essi sono piuttosto volti a stabilire la presenza, la consistenza e la rafforzabilità in corso di terapia di certe strutture dell’Io in grado di fungere, al tempo stesso, da barriera e da cinghia di trasmissione tra la vita interiore del paziente (con i suoi sentimenti e desideri, i suoi ricordi e fantasie) da una parte e la sua vita esterna e il comportamento pubblico, dall’altra. Sappiamo che proprio la debolezza di tale barriera è il principale problema della psicosi.

Anche questo approccio è del tutto opposto rispetto a quelli esposti all’inizio e tipici delle psicoterapie: la lettura o l’analisi del mondo interno, costituito da ricordi, emozioni represse, impulsi di vario tipo, ma anche da potenzialità e da spinte creative inattuate, come non è direttamente utile per confronti attualizzanti di tipo drammatico – narrativo, così non ci aiuta neanche a prevedere il comportamento futuro del paziente o a costruire degli indizi prognostici sull’evoluzione della malattia o sulle possibilità insite nella terapia. Interrogare, dopo averlo fatto emergere, l’immaginario e l’inconscio mitico personale del paziente, che è già fin troppo patente e manifesto e che è anzi vincente (attraverso la confusione, l’angoscia, il delirio, i comportamenti patologici, ecc.), non ci dà alcuna indicazione utile.

E’ solo la constatazione della presenza di strutture di contenimento forti o rafforzabili che ci consente una predizione più favorevole circa l’esito del trattamento. In mancanza di tali strutture, le dinamiche interiori, anche se orientate positivamente e potenzialmente indicative di un’evolutività favorevole, sono impossibilitate ad esprimersi e, una volta evidenziate, non hanno alcun valore predittivo.

 

INTERVENTI SU BASE TEMPORALE NELLA TERAPIA DELLE PSICOSI

 

STRUMENTO

TERAPIE      SINCRONICHE             (PSICOANALISI  E  PSICOTERAPIE) TERAPIE    DIACRONICHE      (TUTTE LE  TERAPIE  COMUNITARIE)
 DELIMITAZIONE     La delimitazione è nei confronti dell’esterno e serve per creare un’area protetta destinata a far emergere i fantasmi rimossi      La delimitazione è nei confronti dell’interno e serve per contenere la produzione di fantasmi psicotici e lo straripare delle emozioni.
CONFRONTO TRA FORME DI RAPPRESENTAZIONE     E’ finalizzato a dare realtà e attualità, all’interno del setting, ai fantasmi rimossi per controllarli meglio e depotenziarli      E’ finalizzato a togliere realtà e attualità ai fantasmi patologici e a rimandarli nel limbo che è loro proprio, allontanandoli dalla realtà attuale.
 PREDIZIONE     E’ legata alla ripetizione e alla “contemporaneità” dei vissuti “inconsci”, così come affiorano nel lavoro analitico, in cui viene sospesa la funzione temporale      E’ legata alla capacità di inserire nel tempo (dopo averli chiusi) i fantasmi interni (deliri, ecc.).

 

 

Quelli qui esposti, forse in maniera un po’ scolastica e astratta, sono alcuni dei principali interventi di terapia su base temporale, che solo di rado vengono messi in atto in modo consapevole e diretto.

Di solito hanno luogo senza che il gruppo di curanti se ne renda conto, operando all’interno, si potrebbe dire, di approcci di altro tipo.

Non intendo però propugnare una maggiore consapevolezza degli approcci temporali spontanei, anzitutto perché la consapevolezza non aumenta la loro efficacia, poi perché la rieducazione che interessa mettere a fuoco in questo Convegno è di tipo più complessivo e integrato.

Intendo dire che, a mio avviso, la forma più completa di rieducazione della temporalità è quella che, al di là dei singoli interventi, mira a mantenere in essere o a ricostruire il filo che unisce il concepimento di un progetto (per soddisfare certi bisogni) e la sua attuazione, cioè quella che salvaguarda o rinforza l’immagine del paziente come persona che progetta e attua qualcosa, che immagina e crea eventi.

Il ruolo dei curanti consiste nell’intuire che il paziente vorrebbe far succedere qualcosa, ma non lo fa o perché ritiene di aver già attuato una cosa nel momento in cui l’ha pensata (pensiero sincronico) o perché pensa di averlo già fatto e non trova il tempo giusto per farlo. In sostanza nel paziente si è rotto il filo che collega i vari momenti della progettualità e la sua identità non è quella di un soggetto “creatore di eventi”, ma solo di un ingranaggio passivo nella produzione di acting out o nel soddisfacimento ripetitivo e coatto di bisogni elementari.

Il problema più grave è che anche il gruppo dei curanti è esposto allo stesso rischio e si lascia costringere ad operare in maniera simmetrica a quella dei pazienti, cioè come contenitori di acting out o erogatori di strumenti di sopravvivenza, perdendo la propria progettualità terapeutica.

La funzione del tempo dei gruppi di lavoro psichiatrici necessita perciò di essere rinforzata, mantenendo viva la percezione di certi nessi logico – cronologici, ma soprattutto la rappresentazione di ciò che sta avvenendo nel rapporto con i pazienti, aggirando e compensando le difficoltà che questi ultimi hanno a causa della loro patologia e che tendono a diffondere in chi li circonda.