Quale supervisione?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Il tema della supervisione è connesso con quello della diagnosi, perché riguarda le modalità con cui l’immagine del paziente si forma e viene trasmessa ad altri professionisti della Salute Mentale, siano essi in veste di supervisori, di direttori, di consulenti, di colleghi con cui condividere la responsabilità della cura o semplicemente di persone esterne all’ambiente in cui si sviluppa la terapia.
E’, questo, un altro dei campi in cui tutte le carenze teoriche e le contraddizioni della nostra materia vengono impietosamente messe in evidenza, talvolta con conseguenze drammatiche.
Qual è il problema?
In tutti i rapporti umani lo scambio rapido di informazioni avviene attraverso operazioni, che coniugano nella maniera più rapida e sintetica possibile, alcuni dati obiettivi (tecnici, storici, quantitativi, ecc.) e notazioni di tipo “iconico” (quali impressioni, propri stati d’animo, emozioni, tratti di tipo pittorico, ecc.) attorno a un determinato contenuto.
Un mix sapiente di questi ingredienti crea di volta in volta il prodotto più efficace per scambiare e ricevere in tempi utili, tra poche o molte persone, una grande quantità di informazioni, dalle più importanti alle più banali. E’ quello che rende possibile la vita delle società complesse.
Quando però l’oggetto dello scambio di informazioni è una realtà psicotica, questo meccanismo comunicativo, inevitabilmente imperfetto, ma di solito efficiente, non funziona più, si inceppa…
Perché?
Perché non è possibile disegnare con poche pennellate espressive un quadro che sia esaustivo della realtà di un paziente psicotico, per il semplice motivo che la facciata che egli (a seconda delle circostanze e del momento) ci presenta è sempre, in un modo o nell’altro, parziale, internamente incoerente, scissa dal contesto comunicativo, e mutevole.
Insomma, il racchiudere tutto in un’immagine immediatamente accessibile è un’operazione semanticamente precaria, la quale, soprattutto, fa pervenire all’interlocutore ben pochi dei dati che interesserebbero ai fini della terapia.
Il tutto è aggravato dal fatto che quando il quadro clinico da costruire e da descrivere ad altri è particolarmente frammentario, confuso e indecifrabile, le persone (quelle non addette ai lavori, ma anche i professionisti del campo), invece di potenziare gli strumenti di osservazione e moltiplicare gli sforzi di lettura dei dati o, almeno, di sospendere il giudizio, si fanno un dovere di incrementare la dimensione integrativa del processo, quella che porta a completare con materiale interno l’obiettiva ambiguità dello stimolo.
Come una tavola di Rorschach, di per sé confusa e priva di un qualunque significato, diventa un “pipistrello”, così un quadro o un comportamento psicotico indefinibile e bizzarro, dato che la sua originaria, quasi “intenzionale” mancanza di senso è insopportabile ai più, non viene ricostruito come un puzzle o almeno lasciato nella sua indecifrabilità. Al contrario, viene caricato di significati estrinseci, di solito pertinenti all’osservatore stesso, cioè viene inconsapevolmente integrato e interpretato nella maniera più soggettiva e unilaterale possibile.
Si tratta di meccanismi ancestrali, regressivi e semplificanti, predisposti per gestire l’emergenza e la precarietà o la debolezza momentanea, meccanismi che per loro natura riducono la percezione dei dettagli, la riflessione, la complessità dell’interazione.
Si forma così un circolo vizioso tra cattiva comprensione della realtà in oggetto (lo stato del paziente, frammentato e incoerente) e produzione vicariante, da parte degli osservatori, di dati inesistenti e arbitrari, ancora più indecifrabili: un circolo vizioso che può avvitarsi fino a sfociare nel fallimento di qualunque comunicazione.
E’ in tal modo che la psicosi, intesa come naufragio della relazione, si trasforma da virtuale in reale e coinvolge pesantemente tutte le persone interessate. Vogliamo chiamare questo processo “contagio”? e il risultato che ne consegue “psicosi indotta”?

Orbene, quando un gruppo, in stato di “normale” sofferenza istituzionale, deve relazionare sul suo operato a un professionista, che non ha contatto diretto col paziente, che non condivide col gruppo stesso la vita, la quotidianità e gli strumenti del lavoro, la trasmissione delle informazioni diventa del tutto inaffidabile. Succede cioè che i dati osservabili, già all’origine parziali e monchi, vengano ulteriormente impoveriti e distorti con l’aggiunta di emozioni improprie e non pertinenti (comprese quelle generate nel gruppo dalla presenza del professionista stesso, non capito, non integrato al proprio interno e sentito piuttosto come un corpo estraneo, dagli attributi più o meno persecutori) e perdano completamente di significatività.
In base a descrizioni di questo tipo, cosa potrà capire il direttore / consulente / supervisore / collega esterno dello stato attuale e delle possibili prospettive future del paziente? Poco o niente.
Eppure è su questa base che vengono prese molte decisioni, anche importanti sulla vita del paziente stesso e sull’operatività del gruppo.
La cattiva o pessima circolazione delle informazioni in senso verticale (cioè tra operatori che agiscono a livelli di lettura, programmazione e responsabilità diversi) è uno dei principali punti deboli di quasi tutte le istituzioni psichiatriche, soprattutto quando le dimensioni delle strutture vanno oltre certi limiti. Le informazioni importanti (per loro natura spesso “occultate”, come ho detto, e distorte dal paziente già all’origine) vengono mal rilevate dagli operatori di prima linea e trasmesse ai livelli superiori con ulteriori, pesanti distorsioni.
Inevitabile quindi che, da parte degli operatori di base, le analisi, le indicazioni e le strategie terapeutiche “discendenti” dalla direzione o dall’équipe responsabile vengano percepite come lontane, schematiche, astratte, se non addirittura cervellotiche. E tali spesso sono veramente, perché vengono elaborate sulla base dei meccanismi su accennati e quindi ulteriormente distorte, col risultato finale di rendere l’atmosfera dell’istituzione irrespirabile.

Che fare?

Anzitutto acquisire una solida consapevolezza di quanto detto fin qui e convincersi che, nel contatto con la psicosi, la produzione e la circolazione delle informazioni è un problema grave, che non può essere gestito nella maniera disinvolta e superficiale, che viene adottata di solito.
E’ un problema talmente grave da diventare prioritario e da richiedere importanti modificazioni strutturali nell’organizzazione di un gruppo di lavoro psichiatrico. Molte altre mancate precauzioni, come pure le consuete “scorrettezze metodologiche”, al confronto, si configurano come venialità.
Gli strumenti per contenere il fenomeno sono vari. Ne cito un paio, di quelli che io adotto normalmente:

– Moltiplicare i punti di vista e gli approcci alla realtà dei pazienti. Contrastando la tendenza ingenua e non professionale a ridurre i canali comunicativi col paziente psicotico, bisogna invece moltiplicarli e renderli disomogenei: coinvolgere molte persone, in situazioni diverse, con strumenti differenti (per es. approcci verbali e non-verbali nello stesso contesto), con filosofie anche divergenti, cambiamenti frequenti. Il gruppo curante deve incorporare al proprio interno la frammentazione strutturale e l’incongruenza semantica tipiche della malattia psichica e gestirle consapevolmente. L’assurdità (apparente) che ne consegue diventa strumento di contatto col paziente.

– Accorciare, anzi, tendenzialmente azzerare la distanza tra livelli di lettura e di decisionalità diversi. Non deve esistere un direttore o un’équipe di coordinamento o un supervisore o un consulente che non conosca a fondo e non condivida la realtà e il punto di vista degli operatori di prima linea. In pratica bisogna che il livello più alto, almeno in una certa misura, “si sporchi le mani” con la quotidianità e che, per contro, gli operatori (e, nella misura in cui ne sono in grado, anche i pazienti stessi) abbiano un graduale accesso ai livelli di lettura e di decisione superiori.

E’ chiaro che queste due procedure confliggono totalmente con le esigenze opposte, altrettanto cogenti:
– quella di mantenere l’unità del gruppo di lavoro, nonostante e contro gli approcci frastagliati e divergenti;
– quella di limitare (se non proprio impedire) l’accesso a livelli di funzionamento superiori (letture complesse, decisioni sul caso, scelte strategiche riguardanti il gruppo stesso), quando non sono esercitabili correttamente da parte di pazienti e gruppi di lavoro in stato di sofferenza. Questa difficoltà, connessa alle modalità concrete di funzionamento del pensiero psicotico, giustifica l’esistenza di più livelli di elaborazione tangibilmente differenziati (cioè direttori, consulenti, ecc., operanti in altra sede e lontani), che devono restare difficilmente accessibili.

Le contraddizioni di questo approccio sono evidenti e fanno parte integrante del lavoro terapeutico, anzi sono il lavoro: trovare punti di equilibrio dinamici e compromessi sempre nuovi è ciò che può permettere di contenere la psicosi e che costituisce il principale fattore di protezione del paziente, percepito come tale dall’interessato.
E’ ciò a cui è finalizzata la terapia e ciò a cui servono i direttori / coordinatori / supervisori / consulenti di gruppi di lavoro psichiatrici: non dare letture o diagnosi o interpretazioni o direttive concrete, tutte operazioni molto esposte al rischio di essere inappropriate per carenza di dati reali, ma soprattutto non capite dalla base, perché recepite in maniera parziale, non mediata, dissonante.
Il compito di tali figure è invece quello di creare nel gruppo di lavoro e mantenere nel tempo un ambiente mentale che faciliti la formazione delle opinioni e delle decisioni, che saranno poi di pertinenza di ciascuno: l’operatore che, alle due di notte, è alle prese con un paziente agitato, violento o a rischio di suicidio deve decidere cosa fare: è lui il direttore sanitario e l’intera équipe. Deve farlo da solo e in tempi reali.
Perché le decisioni (e soprattutto la volontà/capacità decisionale) di tutti siano adeguate alle esigenze di ogni singolo momento (e devono esserlo!), bisogna che il paziente venga capito, grazie all’osservazione, per così dire, “multidimensionale” che ne viene continuamente fatta, destinata a formare nell’operatore un’immagine complessa, che lo metta in grado di leggere tra le righe e “dietro le righe” quello che succede.
Le figure apicali dunque indicano o testimoniano con la propria “presenza-assente” e “assenza-presente” dell’esistenza di livelli di funzionamento mentale diversi dall’immediata concretezza, livelli che il paziente e il gruppo di lavoro sono invitati a raggiungere, nei tempi e nei modi adeguati e quindi non subito, ma che devono invece essere posseduti ed esercitati subito in caso di necessità.
Non è proprio facilissimo, me ne rendo conto, ma non abbiamo molte alternative!