Lavorare sui confini

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Voglio occuparmi adesso dei “confini” del nostro lavoro, cioè di quella linea che delimita l’insieme di operazioni che chiamiamo “terapia”.

Inutile dire che si tratta di un problema alquanto arduo. Tant’è vero che molti (o quasi tutti?) preferiscono non porselo neanche! Con conseguenze disastrose, come è possibile verificare quotidianamente…
Cerco di spiegarmi meglio.
Confini di che cosa? Della terapia nei confronti della non-terapia, ovviamente, ammesso che siamo d’accordo su cosa si debba intendere per terapia!
A questo punto è necessaria un po’ di riflessione.
Qualcuno parla ancora di setting, un concetto che, introdotto in campo psichiatrico dalla Psicoanalisi, oggi, da parte di molti, viene capito con difficoltà. Io, pur essendo della generazione di quelli che ancora hanno dimestichezza col termine, lo ritengo, almeno stando a come è inteso di solito, fuorviante, perché lo sento come espressivo di una visione troppo debole, riduttiva, anche quando è relativo a forme di psicoterapia meno impegnative. Debole, perché richiama l’immagine di una cornice o, peggio, di una vetrina, oppure di un palcoscenico, cioè di qualcosa di statico, che non viene coinvolto più di tanto da ciò che avviene al suo interno.
In altri campi, il contenuto del setting è di solito un’opera d’arte, cioè un quadro o una rappresentazione teatrale, cioè l’oggetto principale del lavoro di un artista, di un pittore o di un regista. Colui che gestisce la cornice è invece un professionista diverso da colui che gestisce il contenuto, un tecnico che si occupa di luci, di colori e di materiali e solo secondariamente o indirettamente del prodotto artistico contenuto della cornice stessa.
Possiamo dire lo stesso di una terapia?
Io credo proprio di no.
Anzi, per quella paradossalità che è tipica del nostro lavoro, soprattutto quando si tratta dei pazienti psichiatrici più impegnativi, la cornice è al tempo stesso lo strumento del nostro lavoro, nonché l’oggetto principale della nostra attenzione…, tanto che possiamo dire che per noi il quadro è costituito proprio dalla cornice!
Si tratta di una cornice attiva, non passiva, che, con grande dispendio di energia, crea e mantiene nel tempo un ambiente diverso, qualitativamente diverso, da quello che la circonda. Un microcosmo in cui vigono, per tutti quelli che ci vivono, modalità di pensiero e di comportamento del tutto diverse da quelle che vigono fuori.
Più o meno come la membrana di una cellula, che non è una semplice “buccia”, ma un vero organo (forse il più complesso della cellula), che tiene separato (dinamicamente e con forza) quello che è proprio e peculiare della cellula stessa o comunque utile ad essa, da ciò che le è estraneo o ostile. Separato ma in continuo contatto, con scambi intensissimi (per quanto regolati) nei due sensi.
Vogliamo paragonarla alla parete di una camera iperbarica? di un sommergibile? della cabina pressurizzata di un aereo? Sono similitudini abbastanza pertinenti, accomunate dalla necessità (presente in tutti i casi suddetti) di evitare in ogni modo possibile delle aperture non controllate, che – non credo di esagerare – esporrebbero al rischio di vita uno o tutti gli abitanti del microcosmo che contiene.
In cosa consistono la peculiarità di questo particolarissimo ambiente?
Non si identificano con forme né di assistenza, né di deresponsabilizzazione, né di tolleranza alle anomalie comportamentali; non sono costituite da affettività gratuita, né da relazionalità forte, né da pedagogia dell’adattamento.
Non sono atteggiamenti di comprensione dei problemi e delle difficoltà, non sono terapia nel senso tradizionale e settoriale del termine (farmacologico, psicodinamico, cognitivo-comportamentale, ecc.), né inviti alla creatività e all’individuazione, né  normatività, né socializzazione guidata.
O, meglio, l’ambiente che noi creiamo contiene tutte queste cose e tante altre ancora, ma non si identifica solo con esse, soprattutto all’inizio del trattamento.
Quello che, nella sua essenza, fa la terapia è un’insieme di particolari accorgimenti, chiamiamoli così, volti a confrontarsi con le difficoltà che i pazienti incontrano nella mentalizzazione del mondo e di se stessi, nella prospettiva attuale o futura di ripristinare con loro una qualche forma di rapporto.
Si cerca insomma di creare le premesse per rendere possibili dei contatti puntiformi o qualche forma embrionale di relazione, con lo scopo finale di riportare all’interno dell’umana convivenza persone, che, a causa della malattia (ma anche, in certa misura, per propria “scelta”!) tenderebbero a restarne fuori, vivendo isolati dagli altri e a livelli di maggiore o minore sub-umanità.
Molti di questi “accorgimenti” sono già stati oggetto di queste pagine e non vorrei soffermarmici in questo momento.
Essi riguardano per esempio:

  • la gestione del consenso,
  • l’attenzione a tutto ciò che costituisce una forme di limite,
  • un adeguato livello di protezione/stimolazione,
  • modalità espressive e anche linguistiche particolari, come trasparenza, concretezza, assenza di doppi messaggi, ecc.,
  • un’adeguata opera di definizione dei problemi, degli oggetti, dei rapporti, degli stati d’animo,
  • una particolare amministrazione dello spazio,
  • una corretta circolazione ed elaborazione delle informazioni all’interno del gruppo curante,
  • la struttura e la vita interna del gruppo curante stesso,
  • l’impianto terapeutico.

Ce ne sono molti altri, tutti collegati in base a una precisa logica interna e a una coerenza, che, nel loro insieme, mantengono un ambiente comunicativo peculiare e unico, in grado di aggirare/supportare/vicariare/stimolare le particolarissime esigenze espressive e recettive dei pazienti e di creare le premesse per un funzionamento mentale accettabile, base di processi come comunicazione, condivisione, consapevolezza, ecc..
Basta poco, però, per indebolire o azzerare le caratteristiche di tale delicatissimo eco-sistema.
Dipende dal funzionamento, appunto, della “membrana”, che non è, come dicevo, una buccia o una copertina, ma un organismo vivo e attivo (molto attivo) e non può permettersi di avere crepe o aree di malfunzionamento, senza creare gravi problemi a chi si muove nel suo interno.
Ciò che per noi costituisce la falla, è una sospensione parziale, settoriale e, quando va bene, transitoria, delle regole di funzionamento su accennate, sospensione che abbassa più o meno drasticamente il livello di funzionamento dell’ambiente terapeutico. Le persone (pazienti o operatori) più sensibili lo sentono subito e si attivano in senso patologico: ne conseguono, da parte dei pazienti, agìti, aggravamenti clinici, necessità di ricovero; mentre da parte degli operatori si alimentano spaccature, litigiosità, collusioni perverse, sinistrosità e morbilità anomale, ecc.
Qualche esempio di “falla”?
Ce ne sono tanti e partono di solito da una cattiva coesione o una mancata concordanza di obiettivi tra operatori (interni e/o esterni), da un rapporto non soddisfacente con qualche famigliare o inviante, da qualche evento esterno (magari amministrativo o finanziario), mal assorbito dai curanti.
Di solito al centro o all’origine della falla si trova una persona (operatore, famigliare, cooperatore esterno…), più disturbata della media, che, di fronte a una sollecitazione un po’ più forte, si mette a funzionare peggio del solito, producendo non psicosi, ma tolleranza anomala per realtà patologiche, rigidità, ambiguità di comunicazione, fantasie velleitarie e irrealistiche, abbassamento del livello di critica… Su questa base si creano alleanze speciali ed improprie tra operatori, pazienti, famigliari di pazienti, colleghi interni ed esterni… che danno vita ad un meccanismo contagioso o a cascata che corrompe progressivamente un determinato ambiente…
La persona che ha messo in moto questo problemi (o che li rende evidenti) ne sembra il colpevole. Ma non lo è. La “colpa”, ammesso che ci sia, è del gruppo nel suo insieme e dei suoi membri più responsabili che non prevengono questi fenomeni e che magari non li percepiscono neanche. Le persone più fragili sono quelle che avvertono prima e di più l’inquinamento ambientale, come i canarini nelle miniere sono i primi che sentono la fuga di grisù. Gli altri vanno avanti come se niente fosse…
Finché, un giorno, non succede qualcosa di visibile (e talvolta di duramente tangibile): i sintomi clinici di qualche paziente si riacutizzano e devono essere riscontrati e tamponati con farmaci, contenimenti, ricoveri, ecc..
Bisogna essere consapevoli quindi che le manifestazioni più evidenti (i sintomi dei pazienti e i comportamenti dissonanti di alcuni operatori) sono solo la conseguenza e la copertura delle vere cause, le cui radici vanno cercate altrove, in lacune nella conduzione, del caso specifico, come di altri casi: per esempio una trasgressione alle regole di comunicazione trasparente e univoca, o una carenza non esplicitata di condivisione, di coordinamento e di coesione tra curanti. E sappiamo che ambiguità e non detti dei curanti, mancato mantenimento della parola data e simili, vengono monitorati con estrema attenzione da parte dei pazienti e giustamente considerati indicatori di affidabilità dei terapeuti e quindi della loro capacità professionale di far fronte alle proprie esigenze esistenziali.
Sappiamo tutti comunque che nel nostro campo “cause” e “conseguenze” si alternano, si intersecano e, per così dire, giocano a rimpiattino tra di loro.
Spesso si tratta di un famigliare o di un curante esterno, che “rema contro” senza darlo a vedere, che “non vede” (cioè, detto più correttamente, nega, per proprie ragioni insondabili…) i problemi del paziente, non condivide il progetto o il metodo terapeutico o “non ne capisce” le ragioni, ma non lo dice. Spesso coinvolge altri e induce anche loro a mettere il bastone tra le ruote, a boicottare occultamente…
In tutti questi casi e in molte altre situazioni simili, non è mai il dissenso o la divergenza di opinione la causa della falla, come non lo è la debolezza o l’impotenza obiettiva dei curanti, ma il modo in cui vengono gestiti, a riprova del fatto che la terapia dei pazienti psichiatrici è soprattutto una questione di strutture portanti e di forme, prima che di contenuti.
Creare la cornice dell’intervento psichiatrico è compito quotidiano di tutti gli operatori.
Cercare le falle è invece un compito precipuo dei membri più consapevoli del gruppo di lavoro, che, per farlo, devono trasformarsi in detective, anzi in veri e propri “cani-poliziotto”, dato il dispiego che il compito richiede di attitudini non convenzionali, quali astuzia, intuito, fiuto, nella ricerca di tracce poco evidenti, come si conviene a situazioni che, per definizione, sono occulte e non-verbalizzate.
La casistica delle “falle” e soprattutto la disamina dei possibili rimedi saranno oggetto della prossima puntata.

 

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