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CENTRO DI SOCIOTERAPIA “DAILY”.   Genova-Multedo, 3/6/81 

LA COMUNITA’ TERAPEUTICA COME UNA DELLE POSSIBILI FORME DI INTERVENTO NEL TRATTAMENTO DEGLI   PSICOTICI

Dialogando con P.C. Racamier

   

Traduzione di Elena GIORDANO

Prima domanda: si sa che durante il trattamento di uno psicotico è necessario talvolta, e per un periodo più o meno lungo, una presa in carico più sostenuta, attraverso il passaggio in una istituzione (usiamo qui la parola istituzione psichiatrica nel senso più largo, che Lei stesso ha indicato, cioè “Equipe curante organizzata”). Vi sono delle indicazioni particolari affinché, tra le differenti istituzioni, la scelta cada sulla comunità terapeutica?

RACAMIER: E’ un problema molto importante, ma vorrei prima chiedere in quale senso preciso usate il termine “Comunità terapeutica”.

MONTINARI: Una terapia con strumenti comunitari, cioè con tutte le possibilità che possono essere fornite da un “milieu” comunitario, finalizzate alla terapia dell’individuo. Lei è d’accordo?

RACAMIER: Sì, io suppongo che una comunità terapeutica possa essere sia del tipo ospedale di giorno, sia foyer terapeutico, sia ospedale.

MONTINARI: E’ proprio questo il nostro problema, dato che non sappiamo esattamente dove siamo, dove ci collochiamo (problema della nostra identità, problema pesante da gestire).

RACAMIER: Adesso cercherò di rispondere alla domanda riguardante le indicazioni per le diverse istituzioni: credo che essa sollevi un aspetto importante e cioè che l’istituzione curante, qualunque essa sia, dovrebbe scegliere i suoi malati, ciò che d’altronde dovrebbe condurre l’istituzione a precisare le proprie capacità, le proprie finalità, obiettivi, possibilità, e naturalmente anche i propri limiti. Sicuramente le indicazioni per una comunità terapeutica, del tipo ospedale di giorno, non sono le stesse che per un ospedale propriamente detto o per un servizio di tipo ospedaliero. Ma ciò che credo molto importante è quanto io stesso ho spesso osservato: l’estrema importanza per l’istituzione curante di arrivare a definire le proprie possibilità, capacità, limiti e per conseguenza le proprie scelte sui malati. Credo che sia importante anche per i malati conoscere questi limiti.

Ho per esempio l’esperienza di un foyer per malati, di cui mi occupo in Francia (foyer del tipo ospedale di giorno più foyer) e so che agli inizi del funzionamento, nonostante i nostri propositi, abbiamo cercato, ad un certo punto, di oltrepassare i nostri limiti, le nostre possibilità. Questo ci è successo una o due volte nel caso di pazienti che presentavano degli stati di passaggio, o delle fasi critiche; tutto ciò ci ha dato molti problemi e credo che non sia stato neppure fruttuoso per i malati, poiché non ha fatto altro che rinforzare transitoriamente la loro sensazione che non vi sia un limite a nulla. Credo sia una caratteristica degli psicotici di non sentire, percepire, o accettare il fatto che ogni persona, ogni organismo, ha dei limiti; è un vissuto dei malati che persone, cose, siano sempre elastiche come gomma. Noi possiamo talvolta essere indotti, dalla preoccupazione di essere tolleranti, di dare una buona risposta ai malati, ad oltrepassare i nostri limiti e comportarci noi stessi come gomma.

Seconda domanda: quali sono i limiti della presa in carico in una comunità  terapeutica (cioè le modalità con cui il paziente ci entra e soprattutto ne esce)? Lei ha detto che lo psicotico può aver bisogno di cambiare differenti terapeuti nella progressione della sua terapia, ma le dimissioni, nella nostra esperienza, ci creano quasi sempre dei problemi, sia che si tratti del paziente a domandarlo, sia che si tratti dell’équipe curante a deciderlo, poiché, evidentemente, non ci si può attendere “la guarigione” come segnale di dimissione e si oscilla sempre tra la paura del troppo presto e la paura del troppo tardi).

RACAMIER: anche questa domanda è molto significativa ed interessante: viene evocato un altro tipo di limite, e cioè quello relativo al paziente (quando entra e quando esce). Dirò in modo un po’ lapidario che per uscire bisogna comunque essere entrati e per conseguenza il procedimento di entrata, di ammissione, mi sembra, per tutte queste istituzioni, di importanza capitale. Penso sia importante arrivare a fare in modo che tale procedimento sia vissuto dal paziente come qualcosa su cui non si bara assolutamente. L’esperienza mi ha anche dimostrato che nel corso del trattamento il procedimento di entrata ha talvolta bisogno di essere revisionato o in qualche modo ripreso. Conosco casi di pazienti che hanno dovuto uscire dall’istituzione per potervi rientrare veramente, poiché‚ la prima volta l’ingresso era in qualche modo sfuggito loro. Credo che quando il processo di ingresso sia stato sufficientemente elaborato, allora anche il procedimento di uscita sia un po’ meno difficile. Voi dite che le dimissioni pongono dei problemi, io credo che questo sia normale e che la cosa ponga sempre dei problemi e sia sempre difficile, ma ribadisco semplicemente che se il processo di ingresso è ben elaborato, la dimissione è un po’ meno difficile.

Vi sono dei casi in cui all’inizio vi è accordo tra paziente, istituzione e famiglia e, per contro, ve ne sono altri in cui tale ammissione non raccoglie il consenso esplicito e consapevole da parte di tutti. Ci sono per esempio dei malati psicotici che non possono terminare un trattamento e lasciare un’istituzione se non attraverso una rottura e mi sembra siano casi che noi dobbiamo accettare, anche se non si tratta ovviamente di casi narcisisticamente piacevoli e soddisfacenti per noi. Sto pensando al caso di un paziente che abbiamo a lungo curato nel nostro foyer, uno schizofrenico grave e che aveva fatto enormi progressi durante l’ultimo anno di permanenza nella nostra istituzione: praticamente ad un certo punto ci ha lasciati senza preavvertirci minimamente ed è rientrato imprevedibilmente al suo paese, a casa sua; noi abbiamo appreso, solo grazie alla mediazione della famiglia, che dopo il suo ritorno egli si comporta bene e che la cosa va, ma naturalmente quel che noi abbiamo vissuto all’inizio, è stato di essere stati abbandonati e privati della soddisfazione di osservare il suo miglioramento.

Anche questo entra nella problematica degli schizofrenici, nel loro tipo di rapporto con noi, nella eventualità che, in certi casi, essi non possano veramente migliorare se non attraverso una specie di rottura nei nostri riguardi. Semplicemente è stato importante che noi gli dessimo un segno per mostrargli che avevamo tollerato la sua partenza e per significargli che eravamo ancora in vita, ancora intatti: credo che se avessi aspettato la “guarigione” di questo paziente avrei potuto aspettare ancora dieci-venti anni.

Questo esempio vi mostra a qual punto in certi casi, e soprattutto nella psicosi schizofrenica, il problema della separazione, del termine, della dimissione sia estremamente difficile. Devo anche dire che se ci sono dei casi in cui il paziente agisce lui stesso la rottura, ve ne sono altri in cui è l’istituzione che, a mio parere, deve decidere la separazione in modo talvolta autoritario. Ho detto effettivamente in passato che uno stesso paziente poteva necessitare di diversi terapeuti successivi, credo anche che un paziente possa avere bisogno di più istituzioni successive e di circolare tra esse. C’è, naturalmente, una grande differenza tra una circolazione viziosa di pazienti che lasciano una istituzione per un’altra, e poi per una terza, per tornare alla prima in eterno, e una circolazione invece in senso dinamico, in cui ogni tappa sia veramente tale.

Avete ben centrato il problema dicendo che si è sempre presi tra il “troppo presto” ed il ‘troppo tardi”, ma vorrei anche sottolineare una cosa che mi sembra importante (e che ho espresso nei lavori più recenti) e cioè la difficoltà che noi, istituzione, abbiamo di elaborare il lutto a riguardo dei nostri pazienti; e più un paziente è stato difficile, impegnativo, più il lutto è difficile da compiersi. Vorrei anche sottolineare, soprattutto per ciò che riguarda gli psicotici gravi, quali gli schizofrenici, come l’elaborare il lutto per il paziente corrisponda ad elaborare il lutto per il suo miglioramento, la sua “guarigione”. Ho spesso osservato che il paziente per cui e con cui si era molto lavorato, che aveva fatto certi progressi e che poi era tornato indietro, come spesso succede, finiva per metterci in un atteggiamento di perdita di speranza (è il momento che si deve passare quando ci si dice che si deve rinunciare alla guarigione del paziente).

E’ un momento, un sentimento di lutto che non è facile da superare, e spesso è in seguito a questa tappa che si manifesta il progresso più sensibile e duraturo per il paziente. Questo si capisce facilmente se si pensa ai problemi di autonomizzazione dei malati psicotici: ed è un aspetto generale del trattamento dei malati e del problema dell’ammissione e della dimissione. E’ l’aspetto dinamico dell’evoluzione dei malati che in fondo entrano nel nostro cerchio istituzionale, nella nostra mente (ed è già un processo difficile), che attuano una grande circolazione in noi e nella nostra istituzione e che infine escono da questa e dalla nostra attenzione.

Terza domanda: la domanda precedente ci rimanda ad un’altra di ordine molto generale e che è scottante in qualunque terapia dello psicotico, cioè il difficilissimo equilibrio tra assistenza e terapia: è il pericolo di un “ménagement” senza fine e che si manifesta sia in forma più grossolana (per esempio nei servizi che fanno piuttosto interventi assistenziali) sia nelle relazioni terapeutiche, anche le più “fini”, che possono diventare troppo narcisistiche e limitarsi a una “politique du nourissage” come lei le ha definite. Come possono presentarsi questi due atteggiamenti nella comunità terapeutica e come trovare un equilibrio?

RACAMIER: Il problema sollevato è importante; circa una decina di anni fa io avevo fatto un lavoro pubblicato sulla “Information Psychiatrique” e che si intitolava “La cura istituzionale dei malati psicotici”. Ho dato al termine “cura” un significato paragonabile a “presa in carico” e ho cercato di distinguere (anche se è una distinzione schematica) tra il registro cura-assistenza, da una parte, e quello di cura propriamente detta, cioè di terapia, dall’altra. Naturalmente, di primo acchito, le differenze sono evidenti, nel senso che le terapie obbediscono in generale a tecniche specifiche e hanno durate sempre limitate nel tempo: anche se non si tratta di una vera psicoterapia in quanto può durare dieci anni, le singole sedute hanno però una durata limitata nel tempo. Al contrario la cura-assistenza può essere quotidiana, quasi costante al limite, e d’altra parte essa è meno tecnicizzata delle terapie propriamente dette.

Pur essendo psicoanalista e di orientamento psicoanalitico nel mio lavoro, mi sono molto interessato al lavoro curante, che non è necessariamente fatto da psicoanalisti, anzi di solito non è fatto da loro. Ciò che mi sembra importante è che questi metodi di cura debbano essere quanto più interessanti possibile e penso che questa sia una delle condizioni di equilibrio tra trattamento, terapia e cura. La cura, la presa in carico, deve arrivare ad essere una attività interessante per coloro che la fanno, siano essi medici, psicologi, infermieri. Per lo stesso motivo queste tecniche di assistenza, di cura, devono avere un aspetto dinamico

Dicevo prima che il grande problema con gli psicotici è la separazione, ma avrei dovuto dire che è quello di tenere la distanza, di durare: non c’è contraddizione tra queste due formulazioni, poiché‚ esse sono complementari; la prima condizione sicuramente è la possibilità di durare, di fare la maratona e naturalmente il paragone è infelice, perché‚ il maratoneta arriva spossato, mentre noi dobbiamo cercare di evitare di arrivare all’esaurimento con i nostri pazienti. Una delle condizioni è proprio che le cure, la presa in carico, l’assistenza, siano frutto di un lavoro collettivo, comunitario di équipe, altrimenti si corre il rischio di cadere in relazioni narcisistiche tra il paziente ed il medico, o l’operatore, o l’infermiere, o lo psicologo e che restino relazioni di coppia, chiuse rispetto a tutti gli altri. Si tratta di relazioni che possono essere definite simbiotiche o, come io le ho chiamate, di seduzione narcisistica, che è una seduzione reciproca, a feedback. Questa relazione di coppia narcisistica, simbiotica, tende a escludere, rigettare qualunque intervento o persino l’osservazione da parte degli altri. E’ in questo senso che certe relazioni di ‘maternage‘ possono diventare relazioni senza fine, interminabili. Qualcuno vuole fare delle domande o dei commenti?

MONTINARI: a proposito dell’ammissione, dell’inizio della terapia, Lei ha detto che per un paziente può non accadere subito ufficialmente, ma c’è bisogno magari di “uscire”, per poi “rientrare”. Mi chiedo se questa coscienza dell’inizio della terapia non possa essere piuttosto un punto d’arrivo che un punto di partenza di un periodo terapeutico (si può curare per sei mesi, un anno, un paziente senza una vera presa in carico per poi ottenere come risultato di tale lavoro la partecipazione attiva del paziente, che può essere considerata un fine anziché un punto di partenza.

RACAMIER: sono assolutamente d’accordo con Lei, ma credo che anche per questo fine ci sia un punto di partenza; noi sappiamo, d’accordo con Lei, che ci sono certe fasi di trattamento in qualche modo pregiudiziali, che acuiscono una partecipazione propriamente detta del paziente. Ciò risponde a quanto dicevo prima sul modo di ammissione in diverse tappe.

MONTINARI: per noi è esperienza abbastanza comune che il paziente arrivi perché è inviato dai Servizi Territoriali o  dalla famiglia, senza che lui sappia o voglia alcunché; successivamente, dopo sei mesi-un anno inizia la sua vera e propria partecipazione, ma probabilmente sono i casi in cui è anche più difficile il distacco.

RACAMIER: è probabilmente più difficile; io penso che le difficoltà di partenza si ripercuoteranno in quelle della conclusione con una specie di simmetria. E’ molto interessante ciò a cui Lei fa riferimento di un ingresso in più tappe.

GHIRARDELLI: spesso si inizia una terapia in un periodo di crisi, poi la crisi finisce, si continua ancora per due o quattro mesi, finché‚ ad un certo punto non so più cosa fare, perché‚ il paziente non cambia più, non è più né contento né scontento, non ha più crisi, ma non lavora, non conduce vita normale, ed io non so se interrompere o meno la terapia, perché ho paura di dire “non ci si vede più, abbiamo finito”.

RACAMIER: è una situazione degna di nota, e mi domando se non sarebbe utile per certi pazienti, in particolare per quelli che hanno presentato un episodio di crisi, di stabilire con loro delle specie di contratti, che possano essere contratti successivi, persino contratti che vertano sulla natura dei problemi posti dal paziente, elaborati con lui, siano essi problemi psicologici che anche pratici. Per esempio il caso da Lei citato: il paziente è arrivato in piena crisi, soffriva magari senza ben saperlo, ma si sentiva certamente molto male ed il primo compito è stato quello di aiutarlo ad attenuare questa crisi, ma ora sembra non ci sia più contratto tra il paziente e Lei su un qualunque obiettivo.

GHIRARDELLI: l’obiettivo sarebbe la guarigione.

RACAMIER: sì, ma che cosa vuol dire la guarigione? Penso che nessuno sappia cosa significa, noi ne abbiamo un’idea un po’ teorica, ma la maggior parte dei pazienti non sa cosa mettere dentro questo concetto di guarigione. Allora naturalmente se l’obiettivo resta molto vago o se ha significato solo per una delle due persone, cioè per Lei e non per il paziente, penso non vi siano possibilità di fare un’alleanza terapeutica e di prendere una decisione comune. Mi direte certamente che è tipico dei malati che noi curiamo non sapere abitualmente ciò che vogliono: voi parlavate prima del caso in cui i malati divengono cooperanti dopo un certo tempo: quando cominciano a sapere che vogliono qualche cosa, vogliono stare meglio. Allora può essere che il nostro primo compito sia di aiutare i pazienti a volere qualche cosa, a condizione certo che non cerchiamo di portarli a voler esattamente ciò che vogliamo noi. Ci sono casi in cui è meglio tentare, imporre delle rotture piuttosto che lasciare che si stabilisca di una situazione completamente stagnante.

SOLDI: Lei ha parlato delle difficoltà, quando si stabilisce una relazione narcisistica tra il paziente e il terapeuta, di vedere da parte degli altri cosa avviene in questa relazione; in tal caso l’équipe è tagliata fuori dal rapporto terapeutico: però può esserci un rischio di questo tipo, benché di natura un po’ diversa, anche quando vi è un rapporto corretto sul piano terapeutico, ma che si attua per esempio con la modalità di un’analisi individuale, sempre nel contesto di una comunità. In questo caso quale può essere il rapporto utile tra l’équipe da un lato e la coppia paziente-terapeuta dall’altro?

RACAMIER: naturalmente il caso di una terapia psicoterapica è un caso del tutto particolare, nella misura in cui nella psicoterapia si tratta di un processo che è del tutto specifico tra due persone e il terapeuta si impegna a conservare il segreto della cura, del trattamento. Devo dire d’altronde che, per ciò che concerne i malati nell’istituzione, i malati psicotici, effettivamente io prendo questo impegno di fronte ai pazienti, segnalando loro che vi metterò una sola riserva: e cioè se valuterò che il paziente è in pericolo di morte. Detto questo il principio resta comunque valido: che tra malato e psicoterapeuta si svolge qualcosa di particolare e di segreto.

Quello che mi sembra sia importante è che l’équipe che si occupa del malato si senta, debba sentirsi, del tutto libera nelle sue decisioni nei riguardi di questo malato. Io penso che quando un malato, che abbia bisogno di una istituzione, non essendo uno che si muove a suo agio nella vita, è in psicoterapia, l’équipe curante attua il sostegno per la psicoterapia. Ritorno a quanto dicevo prima: l’equilibrio non è assicurato se la presa in carico, le cure, non comportano delle responsabilità reali, e se non è un lavoro con un aspetto dinamico interessante. Altrimenti l’équipe sarà  forzatamente gelosa dello psicoterapeuta e avrà, nonostante le migliori intenzioni, atteggiamenti aggressivi e più o meno distruttivi nei confronti della psicoterapia. In tal caso è ovviamente del tutto inutile e fuori luogo fare rimostranze agli operatori: l’importante è che il lavoro degli operatori si mantenga interessante e che essi si sentano investiti di fronte ai pazienti, tutto il resto è sussidiario; è questa la cosa più importante, ma anche la più difficile da realizzare.

MONTINARI: questo discorso della libertà dell’équipe o dell’istituzione è anche un discorso molto scottante, perché in realtà si realizza abbastanza raramente, almeno nella nostra esperienza: si è sempre più o meno costretti…

RACAMIER: da chi? (risate in sala) Ciò che volevo dire è che pensavo che l’équipe dovesse sentirsi libera nelle sue decisioni di fronte allo psicoterapeuta; l’équipe a mio parere non deve rendere conto ad esso.

SOLDI: tuttavia, ponendosi dal punto di vista dell’équipe, resta la difficoltà di rapportarsi al paziente senza conoscere una parte importante di quella che è la sua vita in quel momento, cioè dei contenuti, dei processi dinamici che stanno avvenendo tra il paziente e il terapeuta. Quindi si può avere la sensazione per l’équipe di mancare in qualche modo di informazioni comunque importanti e quindi, se si vuole, di agire con meno impegno, anche al di là del problema dell’invidia che certamente esiste.

RACAMIER: indubbiamente il terapeuta sa più cose: capisco il suo punto di vista ma credo che comunque il principio vada mantenuto. Farò una piccola precisazione: per esempio nell’istituzione di cui mi occupo certi pazienti sono in psicoterapia e lo psicoterapeuta resta dunque muto di fronte agli altri in ciò che concerne la psicoterapia, salvo nel caso in cui il paziente faccia dei progressi nella psicoterapia e un lavoro molto negativo nei confronti dell’istituzione. Allora mi è già successo il caso di pazienti che avevo in psicoterapia e per i quali vedevo l’équipe assolutamente esasperata e prossima a metterlo alla porta. Io che avevo un punto di vista differente, dato che il paziente o la paziente mi presentavano l’altra faccia della luna, ho potuto dire all’équipe che avevo una informazione diversa. Mi sono anche trovato nel caso opposto, non voglio quindi dire che si tratti di un effetto della mia personalità. In questi casi anche una piccolissima informazione dello psicoterapeuta molto generica, del tipo “io ho una visione diversa” aveva avuto una parte importante nell’équipe senza che aggiungessi altro. Si tratta di informazioni generiche, in casi particolari in cui si ha la sensazione di essere in una impasse.

PISSERI: il fatto che il terapeuta individuale abbia anche compiti di altro tipo nell’istituzione e in particolare prenda parte a queste discussioni di équipe, magari facendo le ragioni del paziente, non crea poi dei problemi di difficile elaborazione nella terapia individuale, ponendosi egli per esempio come difensore reale, magari potente del paziente, come nel caso citato? Volevo chiedere altre due cose sul problema della scelta dei pazienti: 1) Quali sono in linea di massima i criteri di tale selezione.

2) La necessità di scegliere i pazienti rende compatibile o comunque più difficile la collocazione di un servizio attivo tipo comunità terapeutica in un servizio pubblico che è polivalente? Quali sono gli altri servizi che devono fare eventualmente da cornice a tale comunità e i problemi che possono nascere nei rapporti tra di loro, nei trasferimenti ad esempio che potrebbero rendersi necessari?

RACAMIER: Riguardo alla prima domanda, io non so se nel caso che ho ricordato il terapeuta si dia veramente una onnipotenza; si tratta piuttosto del fatto che, essendo un po’ al di fuori della mischia, può contribuire ad aiutare l’équipe ad avere un chiarimento diverso, ma mi sembra che, se per esempio ci fosse un supervisore dell’équipe, potrebbe essere questi a giocare tale ruolo. Naturalmente so che i pazienti cercano sempre di ottenere degli interventi attivi da parte del terapeuta; ciò fa parte della loro attività abituale, ma non bisogna eccedere.

Riguardo invece al problema dei Servizi Territoriali che sono tenuti a far fronte a tutti i casi e che teoricamente quindi non possono fare selezioni, ci si trova davanti ad una situazione che è molto diversa: tuttavia vorrei sottolineare che un Servizio Territoriale come quello del XIII Arrondissement a Parigi, che ovviamente per sua stessa definizione accoglie tutti i pazienti del territorio, è stato indotto a differenziare tutta una serie di istituzioni. A questo punto ciascuna delle diverse istituzioni può esercitare un certo diritto di selezione. Naturalmente tutto ciò implica una grande diversificazione dei tipi di istituzione nello stesso insieme pubblico. Forse il problema più grosso in campo pubblico consiste in una diversità delle strutture istituzionali.

SOLDI: potrebbe darci degli esempi di tale diversità nel XIII Arrondissement?

RACAMIER: esiste un ospedale, che non è che un aspetto del dispositivo generale, in esso esistono delle unità che hanno degli orientamenti o delle capacità specifiche; vi è un ospedale di giorno vicino all’ospedale propriamente detto, altri tre ospedali di giorno nel tessuto urbano, c’è un foyer che alloggia dei pazienti alla notte, vi è naturalmente un ambulatorio, vi è un laboratorio protetto e forse sto dimenticando ancora qualcosa. Ciò permette alla maggior parte delle istituzioni, forse non a tutte in senso assoluto (l’ospedale resta comunque l’ultima spiaggia), di avere una specificità, e per conseguenza dei criteri e modelli di selezione. (Avevo dimenticato il servizio per anziani).

SOLDI:  questo permette diverse modalità di intervento?

RACAMIER: sicuramente, se una istituzione ha una certa specificità, ne risulta automaticamente una possibilità di selezione.

BONIZZONE: vorrei tornare al primo problema sottolineato dal Professore, dell’ammissione a una comunità terapeutica o più in generale ad una équipe psichiatrica strutturata: si è parlato molto di precisare il contratto, cosa si fa ed il perché di questa ammissione, di questo trattamento; si è parlato meno della separazione che avviene in questo momento tra il paziente ed il suo mondo di provenienza, in altre parole l’attaccarsi all’équipe curante significa staccarsi dal mondo di provenienza, e viceversa la separazione dall’équipe significa la riammissione al mondo di provenienza. Nella sua esperienza si possono vedere questi due aspetti contemporaneamente al momento dell’ammissione o invece prevale l’aspetto di fare un contratto col paziente su quello che si farà in seguito e non su quello che è stato in precedenza? C’è in alcuni casi un aspetto paradossale: l’équipe deve far terapia per non far guarire la persona rispetto ai suoi problemi di provenienza.

RACAMIER: dov’è il problema? Quando ho parlato di contratto col paziente forse sono stato un po’ troppo rigido nella formulazione: tale contratto può e deve essere modificato nel corso dell’evoluzione del paziente e sono completamente d’accordo che a un certo punto tale contratto possa consistere, specificare una formulazione paradossale. Dal canto nostro non posso dire che la partecipazione del paziente alla comunità terapeutica implichi la separazione completa dal milieu abituale; i primi contatti con un paziente sono stabiliti sulla base di un certo compromesso molto complesso tra il paziente, il suo milieu, la sua famiglia e l’istituzione terapeutica; nell’evoluzione del trattamento le basi dell’alleanza terapeutica si modificano poi progressivamente.

BONIZZONE:  il problema era su come si può analizzare il momento di ammissione ad una équipe terapeutica strutturata, come momento di separazione dall’ambiente di provenienza.

RACAMIER: è vero che di fatto l’integrazione a una istituzione di cura è sempre motivata da una separazione rispetto all’ambiente abituale, in particolare da quello familiare: è una domanda che proviene dal mondo familiare e dal paziente stesso. Il paziente e la sua famiglia temono però in quel momento di distruggersi reciprocamente: l’istituzione è chiamata allora alla riscossa, ma è importante che i combattenti intra-familiari vengano rassicurati che non si sono distrutti; è questo un momento importante nella dinamica dell’intervento dell’istituzione.

GHIRARDELLI: a proposito del XIII Arrondissement che per me rappresenta un buon modello organizzativo, vorrei porre due domande:

1) La critica che molti fanno a tale modello è che si tratta di qualcosa da mettere in bella mostra, perché il bilancio non è normale, ma unico, da centro pilota e quindi non troppo estensibile praticamente.

2) Quando si organizzano centri abbastanza diversificati, particolari: foyer, atelier, ecc… e si organizzano perciò anche operatori specializzati che restano in tali centri molto tempo, ho visto che spesso gli operatori dopo due o tre anni in una stessa istituzione si stancano, vogliono cambiare e questo succede soprattutto per gli operatori che non fanno un lavoro molto dinamico, specie con gli psicotici gravi o gli handicappati, quando il paziente non cambia, quando le “cure” prevalgono sulla terapia.

RACAMIER: risponderò dapprima alla seconda domanda, sugli operatori che si stancano e che hanno  voglia di cambiare ogni anno, due o sei mesi, ecc… Io credo che si stanchino non perché non vi sono molti risultati visibili, ma perché le relazioni con i pazienti non sono state rese interessanti. Ha anche molto in gioco il tipo di relazione con i medici responsabili: nell’istituzione di cui mi occupo prendiamo pazienti a lungo corso, molto difficili e quindi con scarsa soddisfazione riguardo ai risultati, pazienti che curiamo per lunghi anni, tuttavia in generale gli operatori non si stancano nella misura in cui sono interessanti gli scambi con i medici. Tornando alla prima domanda, forse più spinosa, so che viene fatta al XIII la critica di avere un budget più sostenuto rispetto agli altri territori a Parigi e in Francia. Si può considerare la cosa da due punti di vista: o il Governo si accontenta di mostrare in vetrina il XIII (è una questione di politica generale) e lascia il resto nella miseria, oppure pensa che valga la pena di spingere abbastanza lontano l’esperienza per poi, forse, diffonderla in seguito. Sono sensibile a queste argomentazioni, perché spesso mi sento dire, anche a proposito della mia istituzione, che si tratta di  una struttura pilota, di lusso, un affare per ricchi e lo si dice sempre con un tono di disprezzo.

Vi parlerò di automobili: venticinque anni fa le sole automobili che avevano freni a disco erano quelle che costavano un’enormità, quelle da corsa, e tutte le altre circolavano con freni pessimi. Ora, praticamente, tutte la automobili hanno freni a disco, primo perché‚ ci si è accorti che erano migliori, secondo perché si è imparato a farli meno cari. L’unico inconveniente del mio paragone è che i progressi tecnici, meccanici, possono diminuire il costo di un oggetto, mentre per sfortuna in caso di  cure psichiatriche i costi non diminuiscono mai, perché‚ si basano soprattutto sul lavoro umano. Credo comunque che le esperienze terapeutiche particolari permettano un certo insegnamento e per esempio, dopo un certo tempo, di economizzare certi sforzi e di selezionarli.

Quarta domanda: dopo le domande riguardanti la cornice, possiamo adesso passare a quelle seguenti che riguardano piuttosto i contenuti più caratteristici della comunità, la quale propone una terapia passante in qualche modo attraverso il gruppo, a differenza di altri interventi che permangono sempre nel registro individuale. Tali domande provengono dalla nostra esperienza. Noi abbiamo difficoltà a far coesistere la terapia individuale con quella di gruppo: se è la prima che ha la preminenza si ha il rischio di ridurre la comunità a un ospedale o a una pensione in cui si fa della psicoterapia individuale, ma se si dà troppa importanza al gruppo si ha l’impressione di non essere abbastanza incisivi con l’individuo. Qual è dunque il posto e la funzione del gruppo nella terapia?

RACAMIER: a tale domanda ho in parte risposto quando ho parlato dei rapporti tra terapia comunitaria, presa in carico collettiva e per esempio psicoterapia individuale. Mi sembra in ogni caso che il gruppo abbia una funzione di volano moderatore negli scambi affettivi del malato e anche di mediatore tra il malato e l’ambiente sociale e familiare, infine una funzione di specchio per i diversi pazienti e anche per gli operatori. La funzione di specchio si esercita attraverso reazioni a feedback da parte degli altri membri della comunità terapeutica: queste reazioni possono essere molto energiche a patto che non siano rifiutanti; sono molto importanti per i pazienti psicotici che hanno sempre difficoltà a situarsi in rapporto agli altri e a se stessi.

Per i pazienti che hanno contemporaneamente una terapia individuale e una presa in carico d’équipe, di gruppo, il principio è che i due piani debbano essere ugualmente importanti e associati, ci sono però momenti in cui è piuttosto un piano che l’altro a funzionare in maniera dinamica e tali variazioni sono normali.

MONTINARI: ancora una domanda: se uno dei due poli è al di fuori dell’istituzione, cioè se il paziente ha una psicoterapia presso un terapeuta esterno che non ha rapporti con l’istituzione, la cosa pone problemi? come la elaborate voi?

RACAMIER: non credo che questo ponga problemi particolari,  la grande decisione è sapere in qual misura lo psicoterapeuta viene messo al corrente dei fatti importanti della vita quotidiana del paziente.

MONTINARI: sono necessari o meno dei rapporti?

RACAMIER: è una domanda che non ha risposte universali. Se si tratta di pazienti che hanno una notevole attività psicotica, è maggiore il vantaggio se lo psicoterapeuta riceve delle informazioni, ma è indispensabile che tali informazioni vengano date in presenza del paziente. Ciò implica certi tipi di rapporto tra lo psicoterapeuta o lo psicoanalista e l’istituzione.

QUINTA DOMANDA: vi sono anche problemi di gruppo per l’équipe: non è più un solo terapeuta a essere in relazione con il paziente, ma diversi terapeuti, con ruoli diversi, talvolta contraddittori, e anche con vissuti controtransferali differenti; ciò da un lato può dare risonanza ai processi di scissione psicotica, ma bisogna poter giocare con questo senza essere frammentati e dilaniati (problema forse della supervisione? I tentativi in tal senso sono stati per noi piuttosto problematici).

RACAMIER: in generale con i malati psicotici vi sono più vantaggi che inconvenienti al fatto di essere in tanti, piuttosto che soli. Ciò che voi dite è esatto: vi è la possibilità di fenomeni di scissione, agìti attivamente ed è necessario lavorarvi sopra senza essere dilaniati, frammentati, divisi. Il solo modo di lavorarvi credo sia quello di considerare che ciascuno dei membri dell’équipe detiene una parte di verità. Questo è un punto di vista basilare, estremamente importante, come il ritenere che solo il lavoro collettivo su queste parti di verità può divenire qualcosa di coerente. Riguardo al problema della supervisione, essa è sempre problematica, perché‚ è difficile essere supervisori in maniera durevole, ma per contro è importante che l’équipe possa riunirsi regolarmente per discutere del proprio lavoro e dei pazienti. Ogni équipe deve essere il proprio supervisore.

MONTINARI: Tutti mi hanno sempre accusato di ostacolare una supervisione: Lei è d’accordo dunque che si tratta di una cosa difficile, che è preferibile una “auto-supervisione” di gruppo.

(Risate in sala)

RACAMIER: se capisco bene, Lei viene accusato di essere il capo… Non immischiamoci troppo!… Comunque io sono nella stessa situazione essendo il dirigente dell’équipe in cui lavoro, e ci tengo ad esserlo, non mi vergogno a dirlo; detto questo, credo che la funzione di riflessione sul lavoro collettivo possa essere assunta da tutti i membri dell’équipe.

SOBRERO: come vede Lei il fatto che nel lavoro di gruppo dell’équipe possano emergere dei leaders naturali nella conduzione di tale gruppo, e che possano essere in contrapposizione col fatto che esiste un leader ufficiale, proprietario dell’Istituzione o primario imposto dal Servizio Pubblico?

RACAMIER: certo può succedere, ma i fenomeni di sotto-leadership sono universali e mi sembra anche che i sotto-leaders debbano avere campi di influenza più o meno specifici. (Problema dei ruoli, dell’organizzazione dei ruoli…)

SESTA DOMANDA: vi è anche un gruppo che non compare nella comunità, ma che è ugualmente molto importante per il paziente e problematico per noi: e cioè il gruppo familiare: nella nostra esperienza ciò pone sempre dei problemi, perché si va dal rifiuto e dall’abbandono nei confronti del paziente all’intrusione tossica; come gestire questo rapporto in maniera corretta, dato che si tratta di una realtà che non si può cancellare?

RACAMIER: a questa domanda non è facile rispondere brevemente e semplicemente; sono state date diverse risposte a tale problema, dai gruppi di discussione tra famiglie fino alla possibile partecipazione delle famiglie alle riunioni di gruppo comunitarie dei pazienti nell’istituzione, o a delle prese in carico propriamente psicoterapeutiche di certe famiglie.

Il problema della terapia familiare o della partecipazione familiare alla terapia è talmente vasto e complesso che sono piuttosto imbarazzato per rispondervi abbastanza brevemente, ma lo si può esaminare almeno da un punto di vista piuttosto preciso, pragmatico e anche modesto: cosa si può fare prima di tutto per evitare gli interventi disastrosi o tossici della famiglia? Il fatto di stabilire rapporti di informazione scambievole abbastanza estesi con la famiglia  del paziente è qualcosa di molto importante: per esempio l’atteggiamento di una famiglia può cambiare completamente nel momento in cui io prendo degli appuntamenti telefonici ogni settimana con essa per parlare di ciò che succede al paziente. Questo procedimento molto banale non introduce certamente dei cambiamenti profondi nel funzionamento della famiglia, ma modifica l’economia dei rapporti della famiglia con l’istituzione e può persino avere degli effetti dinamici notevoli: le famiglie che intervengono in modo massiccio e tossico sono quelle che si ritengono espropriate; d’altra parte io credo importante che vi siano diversi operatori in rapporto con la stessa famiglia, poiché in una équipe c’è spesso un operatore che tiene un buon contatto con un membro della famiglia, padre o madre, che tutti gli altri trovano terribile.

SETTIMA DOMANDA: un altro problema molto specifico della comunità è di far coesistere la psicoterapia con la socioterapia (cioè l’organizzazione sociale del gruppo che diventa strumento terapeutico); si tratta di due strade che fanno capo a due teorie piuttosto diverse, eppure vengono fatte coesistere.

MONTINARI: praticamente abbiamo seguito il criterio di organizzare anche il gruppo e non solo di utilizzarlo come sfondo alle terapie individuali, dandogli una connotazione di micro-società, con comitati, riunioni, scadenze, attività quotidiane; questo però con una filosofia abbastanza diversa da quella della terapia individuale, basandosi piuttosto su una aspettativa rieducativa, socializzante del paziente, tipo apprendimento di modelli adattati. Conciliare le due filosofie spesso crea dei problemi, però non siamo mai riusciti a scegliere per l’una o per l’altra.

RACAMIER: non credo che queste due prospettive debbano essere necessariamente antagoniste, dato che si indirizzano a piani e livelli diversi della personalità. E’ vero che la socioterapia ha un aspetto un po’ pedagogico, credo che questo miri soprattutto a dare al paziente delle possibilità organizzate di scambio e di vita, naturalmente questo non si svolge sullo stesso piano della psicoterapia individuale, ma non lo trovo in antagonismo.

GIORDANO: esempio del paziente ipercontrollato che manifesta a un certo punto la sua aggressività: questo verrà valutato in modo diverso nella socioterapia e nella psicoterapia.

RACAMIER: può darsi che questo avvenga, ma per il paziente non sarà contraddittorio; sono due punti di vista diversi che rispondono a due prospettive differenti.

MONTINARI: esiste comunque il problema della loro articolazione, cosa non sempre facile.

RACAMIER: credo che il problema esista quando il paziente cerca inconsciamente di mettere in assoluta opposizione il gruppo socioterapico e quello psicoterapico.

OTTAVA DOMANDA: gli acting out (aggressioni, tentativi di suicidio…) hanno provocato nella nostra comunità, in una prima fase, degli atteggiamenti megalomanici di poter tutto recuperare e in una seconda fase, degli atteggiamenti bruscamente espulsivi. E’ possibile trovarvi un senso senza cadere in una delle due reazioni estreme, o bisogna veramente considerarli delle rotture della relazione con l’istituzione?

RACAMIER: ci sono sempre degli acting out da parte degli psicotici, quando essi hanno qualcosa da dire senza poterla esprimere verbalmente e quando sentono il pericolo di essere o troppo vicini o troppo lontani dagli altri. Il fantasma del paziente in quel momento è di poter distruggere l’altro o di poter essere distrutto dall’altro. Tra l’eccessiva tolleranza e l’eccessiva intolleranza, vi è una posizione intermedia consistente nel dire al paziente, nel momento che segue immediatamente all’acting out: “noi desideriamo continuare a lavorare con Lei, ma abbiamo dei limiti e ci sono cose che non possiamo sopportare; ora Le domandiamo che sia Lei stesso a fare qualcosa per riparare l’atto appena compiuto”. Si trasforma, si ribalta la situazione domandando al paziente stesso di effettuare la riparazione, ridandogli così un ruolo di molta importanza rispetto ai suoi fantasmi di distruzione. Il fatto è che gli acting out dei pazienti sono sempre spiacevoli, perché si rischia di prenderle, ma ci sono anche, sempre, quando si opera in tal modo, dei riavvicinamenti al paziente che sono molto importanti. Questa via permette di evitare una eccessiva tolleranza che toglierebbe ogni significato psicologico e sociale all’acting out ed una eccessiva intolleranza che introdurrebbe delle rotture proprio nel momento in cui il paziente cerca maldestramente un riavvicinamento a noi.

CAMPANELLA: nello staff spesso succede che emergano problemi, elaborati per lo più in senso espulsivo, nel senso che si sceglie a maggioranza la soluzione della dimissione per dei pazienti che si collocano, nella stratigrafia dell’istituzione, al livelli più alti.

RACAMIER: riguardo ai pazienti che fanno una buona impressione, sia in generale che nella loro evoluzione, si ha la tendenza quasi ad allontanarli, perché vanno troppo bene: al contrario, proprio perché vanno troppo bene, bisognerebbe essere prudentissimi. Di fronte ai pazienti che vanno così bene, forse un po’ troppo secondo me, io invito loro alla massima prudenza e divengo l’avvocato del diavolo chiedendo subito cosa ne hanno fatto delle loro difficoltà, dei loro conflitti o persino della loro malattia.

MONTINARI: è comunque un problema dello staff, il non sapersi rapportare con questo tipo di pazienti.

RACAMIER: sì, perché è abbastanza difficile, ma la tecnica che io propongo è sufficientemente prudente e sicura perché dà dei punti di riferimento.

MONTINARI: il nostro problema è di arrivarci, a questo punto. Si passa piuttosto attraverso una fase in cui si considera questo malato come una  specie di operatore, quasi un amico, e si arriva solo più tardi, spesso troppo tardi, alla fase della prudenza. Questo è forse un problema di staff, che significherà qualcosa…

RACAMIER: forse… (risate in sala).

GHIRARDELLI: vorrei domandare se è necessario separare l’istituzione di giorno da quella di notte (dal foyer). Io penso, non per esperienza ma per aspirazione, che sia meglio separare, avendo io il fantasma dell’ospedale psichiatrico. Chiedo se, per il foyer di notte, esiste un preciso ruolo terapeutico, che non sia solo quello della protezione, un ruolo più attivo, propositivo, con applicazione di tecniche anche per la serata e la notte.

RACAMIER: capisco il suo punto di vista di voler evitare la ripetizione dell’ospedale, ma vorrei sottolineare che qualunque precauzione venga presa, ed a ragione, i malati vivranno comunque le nostre istituzioni come se avessero dei muri massicci. Mi sembra che se il foyer ha una presenza di cura nella serata, questa è estremamente terapeutica: nel nostro foyer abbiamo un funzionamento curante dalle dieci del mattino fino alle venti, venti e trenta della sera e tra le ore più importanti vi sono proprio quelle tra le diciotto e le venti e trenta.

BANDINI: mi viene un dubbio su un rischio, insito in quanto si è detto oggi; si è parlato molto di istituzioni, molto (e forse troppo) di pazienti psicotici, ma noi sappiamo bene che le persone che hanno dei bisogni, che esprimono dei problemi, non sono pazienti psicotici, ma che noi, essendo medici, cerchiamo di incanalare, in qualche modo, nei problemi medici. Ho sentito persino dire che al paziente che non ha problemi dobbiamo farglieli avere, e questo, come criminologo, lo sento dire anche in carcere da psicoanalisti, psichiatri, ecc.: “finché il detenuto non arriva alla depressione, alla crisi, ad esprimere un conflitto, noi non possiamo trattarlo”. Il dubbio che mi viene è questo: non corriamo così il rischio di medicalizzare un problema che invece non è affatto tale, solo perché noi siamo medici e abbiamo certe tecniche da utilizzare, mentre ben altre potrebbero essere le cose da fare, per esempio per un ragazzo che ha dei problemi in famiglia e che non vi può stare…

RACAMIER: questo è vero, bisogna diffidare della psichiatrizzazione troppo facile, è una osservazione generale che ha una grande importanza pratica e che è stata confermata dagli esperimenti di una organizzazione psichiatrica molto solida quale quella del XIII Arrondissement, il quale ha energicamente lottato contro la psichiatrizzazione di ogni problema.