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Piccolo è bello?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Quali sono le “giuste” dimensioni di una struttura psichiatrica?
E’ un altro tema fonte di equivoci e malintesi.
Negli anni 70-80, nel periodo più caldo della chiusura dei manicomi, molti furono indotti a pensare che “piccolo è bello”, secondo un ragionamento siffatto: gli ospedali psichiatrici sono diventati quello che sappiamo, perché si sono dilatati a dismisura. La ricetta migliore per non incorrere nei disastri della manicomializzazione è cercare di evitare qualunque mediazione istituzionale oppure creare unità piccole o piccolissime (per es. comunità di cinque o sei ospiti con tre o quattro operatori).
E’ una convinzione che molti hanno tuttora, ma è una convinzione basata su premesse sbagliate.
La “manicomializzazione” della realtà istituzionale dipende da ben altri fattori, connessi, sì, con le dimensioni dell’istituzione di cura, ma sulla base di considerazioni molto più complesse.

Abbiamo visto che lavorare con la psicosi vuol dire prima di tutto affrontare (anzi assumere su di sé) il grave problema della trasmissione delle informazioni e dell’intenzionalità tra livelli diversi di elaborazione e integrazione, cioè tra chi è a contatto diretto con i pazienti (operatori, medici, infermieri), chi riflette su ciò che succede (gli stessi, durante il lavoro di équipe, supervisori, psicoterapeuti nelle sedute) e chi elabora le strategie e decide (direzione, servizi invianti).
Si può dire che il problema della (notoriamente cattiva) trasmissione delle informazioni nel gruppo di lavoro psichiatrico e tra gruppi o persone funzionalmente collegati sia il riflesso di quella che è la principale difficoltà del paziente psicotico: mentalizzare ciò che gli accade, ciò che sente al suo interno e ciò che gli arriva dall’ambiente e, in senso opposto, attuare quello che pensa, in maniera consequenziale e condivisa con chi lo circonda.
Insomma, se è vero che nella psicosi è precaria la rappresentazione e la progettazione autonoma della propria esistenza all’interno del contesto in cui la persona si trova, la cura dovrebbe essere, almeno idealmente, lo stimolo al ripristino di questa funzione, così come l’assistenza del paziente ne è il provvisorio vicariamento. Il tutto, partendo dai curanti stessi.
Fin qui siamo tutti, penso, d’accordo.
I problemi metodologici nascono dal come interferire costruttivamente nei processi patologici che sostengono la psicosi, perché ciò richiede una conoscenza abbastanza approfondita o almeno non ingenua delle modalità esperienziali dei pazienti, modalità che sappiamo essere molto particolari, forzatamente diverse da quelle vigenti fuori del loro contesto di vita.
Ingenuamente si potrebbe dire (e si dice) che i problemi di trasmissione delle informazioni possono essere risolti alla radice, riducendo i rimandi e gli snodi in cui il paziente si perde e anzi si aliena. E’ per questo motivo che egli dovrebbe essere tolto da una grande istituzione e affidato, se non a se stesso ad un operatore unico o a un piccolo gruppo, capace di compiere, con lui e/o al suo posto e in tempi reali, quelle operazioni che egli non è in grado di compiere.
Sembrano scelte razionali, ma non lo sono. Tant’è vero che, sul piano operativo, servono solo ad aumentare la confusione interna del paziente e i suoi vissuti patologici di onnipotenza/impotenza, mentre costituiscono la via maestra per portare una persona (l’operatore stesso, non il paziente) alla follia e sulla soglia del suicidio.
Ma è sul piano teorico che esistono i problemi più gravi. Tali visioni non tengono conto del fatto che la trasmissione delle informazioni, così come la mentalizzazione del mondo, sono precarie da parte dei pazienti, per la difficoltà che essi incontrano nello stabilire un “prima” e un “dopo”, un “qua” e un “là”, un “sopra” e un “sotto”, un “dentro” e un “fuori” e quindi nel costruire quelle coordinate dell’esperienza, indispensabili per organizzare e dare un senso a ciò che si pensa, e quindi a quello che andrebbe detto o non detto, fatto o non fatto.
La loro inerzia ne è una delle principali conseguenze: non è “pigrizia”, ma la conseguenza del fatto che il “fare” non viene concepito come un’operazione significativa rispetto al “non-fare” e viceversa. “Perché devo fare una cosa che per me, semplicemente… non esiste? Perché devo spostarmi da qua a là, se “qua” e “là” sono la stessa cosa?” è il ragionamento che i pazienti sembrano fare di fronte a certi compiti o comportamenti, richiesti dal mondo circostante, ma da loro non mentalizzati e quindi incomprensibili, anzi inesistenti. Come dare loro torto? Sarebbe “dei matti” se facessero il contrario!
Assenza di limiti, assenza di significati e inerzia, realtà tra loro variamente collegate, sono tra i principali fenomeni che stanno alla base dell’esperienza psicotica. Le cose non assumono significato, perché è debole nei pazienti la capacità di scorporarle dal contesto, definirle, individuarle, inscriverle in una cornice che permetta di vederle nella loro peculiarità, cioè di “leggerle”.
In tale ambiente mentale, tutto tende ad essere in contatto con tutto e a trapassare nel contesto, mentre, contemporaneamente, alcuni contenuti importanti sono esclusi senza un criterio razionale. Avendo difficoltà a compiere corrette operazioni di scomposizione e accostamento di elementi, i pazienti danno vita a processi di inclusione ed esclusione impropri, arbitrari. Per fare un esempio, un gregge di pecore è visto come una chiazza bianca con qualche zoccolo, non come un insieme organico e coerente di singole pecore.
Il che porta, a lungo andare, a costruirsi una visione sempre più confusa delle cose, alimentando un circuito vizioso.
I pazienti hanno perciò bisogno che qualcuno li aiuti a fare ciò che essi hanno difficoltà a fare: separare, definire, limitare, scindere, identificare, chiarire ciò che è confuso, insieme alle operazioni opposte: integrare, accorpare, accostare, entrare in contatto con elementi che essi tenderebbero a scindere senza senso e ad espellere dalla loro esperienza.
Tale aiuto deve essere dato non attraverso discorsi o operazioni intellettuali, ma attraverso cose, azioni, oggetti intermediari tratti dalla quotidianità, dalla corporeità e dalla convivenza. Far fare (magari forzosamente) la doccia è un bel modo per aiutare a distinguere lo sporco dalla propria pelle, che il paziente tenderebbe in molti casi a considerare una realtà unica! Fare una cosa o fare l’altra, interrompere il non-fare con un’attività preordinata ed eterodiretta, aiutare/costringere a riconoscere e a denominare realtà interiori, come sentimenti, nozioni e immagini, sbiadite e confuse, sono alcuni degli infiniti modi per lavorare efficacemente su questa che è la difficoltà specifica dei pazienti psichiatrici.
Possiamo chiamare tutto questo “lavoro sui limiti”, perché la cattiva percezione del limite è il denominatore comune a tutte le operazioni più problematiche.
La peculiarità di tale lavoro è data dal fatto che deve essere condotto con modalità concrete e tangibili e deve avvenire nel gruppo stesso e nella sua struttura, prima che nel paziente, sia perché il gruppo è a sua volta sofferente, sia perché ha il compito di capire e far capire le cose con azioni parlanti (per citare Racamier), a chi non è a suo agio con simboli, metafore e astrazioni.
E’ necessario che il gruppo faccia suoi i problemi di difficoltosa mentalizzazione del paziente (e a questo riguardo non ci sono problemi!) e che ne avvii su di sé la soluzione, attraverso un lavoro sui limiti svolto al proprio interno.

E’ evidente come il lavoro sui limiti sia facilitato dalla distanza, dal numero e dalla varietà delle persone e quindi dalle dimensioni della struttura. La soluzione uno a uno, così come un gruppo di cinque – sei – otto persone (tra pazienti e operatori), non è assolutamente in grado di resistere alle spinte centripete verso l’omologazione, la sdifferenziazione, la globalizzazione dell’esperienza e quindi verso la perdita di senso e la conseguente stasi.
Le istituzioni terapeutiche devono anzitutto… esistere (cioè essere strumenti di frapposizione e quindi di limitazione tra gli individui), poi essere grandi e aperte. Ma grandezza e apertura colludono con le spinte di tipo centrifugo e scissionale (altrettanto forti nei pazienti) e fanno perdere la concreta visibilità del processo di elaborazione dell’esperienza, come fenomeno sintetico e unitario della persona. Inoltre, nella pratica, vanno anche contro le necessità di assistenza e di protezione dei pazienti e possono rappresentare forme di omissione o di malpractice, dalle conseguenze talvolta estreme.

Bisogna trovare delle soluzioni che concilino tali esigenze opposte.
Ci vuole una realtà abbastanza grande da permettere di lavorare sui limiti, essendo quindi in grado di albergare al proprio interno un “altrui” e un “altrove”, distanza e inaccessibilità tra ambiti diversi, variabilità tra una persona e l’altra e tra una funzione e l’altra; capace di alimentare scale di valori, regole impersonali, norme rispettate da tutti. Insomma che sia in condizioni di lavorare sulla cosa più necessaria per tentare di contenere e correggere l’esperienza psicotica.
E ci vuole una realtà abbastanza piccola da rendere immediato e concretamente visibile e assimilabile il processo di mentalizzazione delle esperienze, con un apice (il leader morale? l’animatore? il direttore? il supervisore?) vicino e presente, potenzialmente capace di capire, decidere e dare risposte senza ulteriori rimandi… ma senza aggirare o escludere la differenziazione interna del gruppo curante, indispensabile per garantire la mentalizzazione stessa, prima ancora che per riscontrare la frammentazione scomposta del mondo interno del paziente, contenerla e correggerla.

Una comunità di cinque o sei ospiti, con tre o quattro o cinque operatori ha ben poche probabilità, per esempio, di riuscire ad alimentare in un unico contesto gruppi e sottogruppi (di operatori e di pazienti) con interessi e responsabilità diverse: gruppo sportivo, gruppo teatrale, comitato regolamento, comitato gite, gruppo di discussione, ecc. In cui siano presenti approcci e opinioni diverse ma ricomposte, norme e regole impersonali di qualunque tipo. In cui ci sia spazio per i singoli e i loro vissuti psicotici, ma in cui si facciano esperienze di interruzione dei vissuti psicotici stessi e quindi di limitazione dell’autoreferenzialità esasperata.
E’ molto più probabile che una comunità piccola perda essa stessa qualunque residua forma di struttura, comprese le differenze tra “me” e “te”, “dentro” e “fuori”, ecc.
Inoltre, difficilmente una realtà piccola può permettersi un leader che condivida la vita e la prassi quotidiana di operatori ed ospiti senza restare totalmente impigliato in una palude di fusionalità senza limiti e quindi in una dimensione psicotica. Egli, essendo costretto a prenderne le distanze, diventa inevitabilmente estraneo (vissuto addirittura come ostile!), quindi tale da interrompere la catena decisionale, anzi da non permetterne neanche l’esistenza.
Per tentare di venire a capo di queste difficoltà ci vuole un’istituzione grande. Ma in un’istituzione grande la distanza, il limite, le regole (ammesso che ci siano!) non sono controllate e giocate terapeuticamente. Sono obiettive e reali (e spesso ottuse)! Non solo non sono utilizzabili per rimettere in moto dei processi mentali assopiti, ma tendono anzi a favorirli.
Inoltre anche l’istituzione grande moltiplica e rende insolubili i problemi di gestione delle informazioni, perché allunga la catena decisionale, con gli stessi risultati finali dell’istituzione troppo piccola: diventa un organismo che non elabora le informazioni, che non capisce, non si muove e non cambia, perfettamente attrezzato per colludere, anzi, per identificarsi con la passività della psicosi.
In ogni caso viene presentato al paziente un contenitore di terapia “acefalo”, che non sa o non vuole né capire né decidere. Non è un bel modello identificativo per chi ha proprio in questo il suo problema fondamentale!
Teniamo presente che queste carenze e queste contraddizioni, che a noi sembrano irrilevanti o comunque non percepibili da parte dei pazienti, vengono invece avvertite da loro con estrema sensibilità e giudicate di conseguenza! Un solo episodio di discrepanza in questo ambito è sufficiente a bloccare qualunque ulteriore processo terapeutico.

Insomma il problema è teoricamente insolubile e rappresenta, se vogliamo, un risvolto, nonché una metafora dell’insolubilità della psicosi…
Ma è una sfida! qualcosa dobbiamo pur tentare!
Nella mia esperienza può funzionare al meglio un gruppo di venti-trenta-trentacinque pazienti, con quindici-venti operatori interni e una decina esterni (per lavori più discontinui o più specifici).
Gruppi più piccoli sono ingestibili, come ho già detto, anzi … inavvicinabili senza rischio personale! Di gruppi molto più grandi ho poca esperienza diretta, ma ritengo che finiscano per creare problemi analoghi o simmetrici, sui quali può diventare difficile lavorare.
Con queste dimensioni invece è possibile invece (purché lo si voglia!) tenere in equilibrio forze centrifughe e forze centripete, distanza e vicinanza, proprietà ed estraneità ecc. e quindi vicariare/supportare/facilitare quelle operazioni mentali, la cui carenza è alla base degli stili psicotici di pensiero e di comportamento.
Lavorare in altri modi non è impossibile. Ci mancherebbe altro! E qualcuno forse ci riesce. Ma è ancora più difficile!
Paganini riusciva a suonare il violino anche con una corda sola, ma se noi… non siamo Paganini, dobbiamo rassegnarci a cercare di capire sempre meglio certe peculiarità del nostro lavoro e a tenerne conto nella quotidianità.