Protezione o stimolazione?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

 

Cosa vuol dire, allora, proteggere un paziente psicotico?

Abbiamo visto che lasciarlo esposto alle normali sollecitazioni ambientali induce una chiusura difensiva, mentre sospendere le sollecitazioni esterne equivale a lasciare che si danneggi da solo, alimentando in ogni caso un circolo vizioso tra difesa antalgica e perdita di funzioni e di contenuti.

Sembra che proprio non ci sia spazio di manovra.

E’ uno dei classici casi in cui si constata come la logica della psicosi (o almeno della psicosi non riconosciuta) persegua con determinazione il raggiungimento del punto di impotenza, per il paziente stesso e  per i suoi curanti. Almeno finché non la si capisce.

In altre parole, una condizione in cui, se non si fa niente, si è danneggiati e, se si fa qualcosa, si sbaglia comunque.

E allora?

E’ qui che si vede, se la si ha, l’autentica comprensione del mondo del paziente!

Dobbiamo imparare a maneggiare l’unica logica in grado di essere capita da lui e capace di entrare nel suo mondo.

Cos’è che caratterizza la logica psicotica?

Un funzionamento anche molto complesso della mente, che però deve avvenire in maniera tale da non richiedere le prestazioni di una personalità presente e forte, quali senso della propria identità, critica, relazionalità, consapevolezza, assunzione di responsabilità e molte altre ancora.

Cioè un funzionamento in assenza (o, meglio, in fluttuante sospensione) delle funzioni superiori dell’io, dal cui uso il paziente rifugge e che, quando vengono richieste, lo bloccano.

Ma come si fa a tenere assieme un mondo complesso, senza impiegare, per esempio, la capacità di prendere le distanze dall’ambiente (interno ed esterno), di smaterializzare, di conciliare gli opposti, di sostituite simboli a cose materiali e poi di trasmettere il tutto da una persona all’altra? Sono queste capacità che permettono di far stare in ordine nella nostra testa milioni di oggetti (per propria natura concreti e indipendenti l’uno dall’altro, se non contrastanti) e di integrarli armonicamente tra di loro e all’interno del nostro mondo… oltre che in quello degli altri…

Non è possibile farne a meno, se non tagliando parti molto consistenti di ciò che dovrebbe essere elaborato e degli strumenti stessi dell’elaborazione.

Che è quello che fa il paziente.

Ma si possono esplorare altre possibilità, basate su un “inganno“, molto simile a quello del cavallo di Troia.

Il ragionamento di partenza è questo: le funzioni superiori sono sofferenti, indebolite, virtuali, ma non assenti. Se siamo convinti che il paziente davvero non sia in grado di esercitarle, dobbiamo chiudere il discorso e abbandonare qualunque velleità terapeutico – riabilitativa, perché, data l’infinita complessità dei processi coinvolti, non si vede come si possa anche solo pensare di ripristinare veramente il funzionamento di una mente malata.

In realtà il paziente non è privo della capacità di farlo: solo “non vuole“, perché gli fa male e ne ha paura ed erige delle barriere protettive. Ma sono barriere sovradimensionate, non selettive e globali: tengono “fuori dalle mura” tutto ciò che supera una certa complessità e un certo grado di organizzazione interna (persone, rapporti, idee, sentimenti…).

Questa rigida esclusione, solo in piccola misura avviene perché il materiale esterno obiettivamente non può essere elaborato in tempi reali, da parte di strutture mentali progressivamente indebolite dalla malattia e dal crescente non-uso. Il principale fattore causale è costituito dal fatto che il confrontarsi anche con un solo oggetto esterno più complesso costringe il paziente a bloccare tutto il funzionamento mentale, per evitare quelle implicazioni così impegnative e dolorose che egli associa al funzionare come un soggetto a tutti gli effetti.

In altre parole possiamo legittimamente sostenere che il blocco, almeno in buona misura,

– è quantitativamente sproporzionato all’entità della disabilità di base

– si estende ben al di là delle effettive incapacità settoriali

– è anche “frutto di cattive abitudini” (acquisizione stratificata di modalità di funzionamento distorte).

 

E’ su tale convinzione (ovviamente discutibile, come tutto) che si basa la speranza di mettere in atto un lavoro terapeutico – riabilitativo.

Se, a questo punto, noi abbassiamo il livello di complessità degli oggetti da introdurre e inventiamo (dato che non esiste – credo – “in natura”) un mondo “a livello di complessità zero”, le difese non vengono allertate e la barriera diventa permeabile.

 

Si tratta allora di costruire un ambiente “a complessità zero”, fatto di totale concretezza, di totale trasparenza, privo di espressioni polivalenti, di metafore e di rimandi logici.

Un ambiente in cui non viene richiesto di pensare, mediare e decidere, cioè di compatibilizzare opposti, gestire contraddizioni, conciliare esigenze inconciliabili.

Un mondo senza limiti, allora?

No, al contrario, un mondo dai limiti chiari, obiettivi, concreti e ineludibili.

Un ambiente che non richiede persone in grado di esercitare le funzioni superiori della mente, quindi un mondo di “non-persone”… che vivono e convivono, pensano, fanno delle cose, hanno scambi affettivi e relazionali… ma lo fanno in maniera eterodiretta, cioè pilotate unilateralmente da altri, nel senso che vengono “interagite”, “comunicate” e “fatte fare”.

Un ambiente mentale, quindi, intriso di ossimori e di paradossi, come la “relazionalità non-relazionale” e la’”non-relazionalità relazionale“, la “passività attiva” e la “attività passiva“, e via di seguito.

Bisogna operare delle forzature linguistiche (come quella, appunto, di trasformare verbi transitivi in intransitivi e viceversa), per esprimere la peculiare qualità delle operazioni mentali e dei rapporti che si sviluppano in questo contesto.

Non sto parlando di Marte, ma di un normale ambiente psichiatrico.

Non so, ripeto, se “in natura”, cioè nell’ambito del normale sviluppo delle relazioni umane, esiste qualcosa di simile. Forse, in parte, nell’allevamento e nell’educazione dei bambini. Non credo nell’esercito o nelle carceri o simili, perché in questi casi la direzione dall’esterno non ha – come in Psichiatria – la pretesa di avvenire per conto e in favore dell’interessato, ma è un semplice dato di fatto.

La terapia psichiatrica, comunque, deve basarsi su questo.

 

Ci sono molti modi per abbassare il livello di complessità proposta al paziente psichiatrico.

Anzitutto un’ampia griglia di attività giornaliere, non decise da lui, bensì previste e programmate, che abbracci tutta la giornata, pur con ampi spazi di riposo e di recupero. Devono essere attività molto lontane e differenziate (dall’arte alla matematica, dalla psicomotricità al lavoro manuale, dai gruppi di discussione al lavoro esterno, ecc.), perché è con l’ampiezza e la differenziazione degli ambiti che indichiamo (non potendolo dire esplicitamente) i livelli di complessità potenziale ai quali ci aspettiamo di accompagnare il paziente.

Poi c’è l’esercizio dell’intelligenza e di altre funzioni fisiche e mentali per scopi non finalistici e “non propri”, se non addirittura inutili o assurdi. La giustapposizione di oggetti scollegati, senza logica, senza bisogno che vengano capiti ed elaborati, è accettata dal paziente, perché è compatibile con la sua visione del mondo, che non deve richiedere l’esercizio della facoltà di decrittare le regole in base alle quali gli oggetti sono assemblati.

L’assenza di logica (se non l’assurdità), oltre a interagire bene con la psicosi per i motivi suddetti e ad essere una garanzia (illusoria!) di non-pericolosità dei contenuti, dà al paziente la sensazione di un’alternativa totale e quindi di una rottura con la sua realtà attuale e di un grande cambiamento potenziale. E’ anch’essa una forma di limite, che rimanda a un’integrazione superiore, ma non la richiede preventivamente.

Poi c’è il lavoro di scomposizione di realtà complesse e impegnative: “frantumare” gli oggetti (cose, persone, situazioni di vita….), analizzarli nei loro costituenti elementari, spiegarne il funzionamento (per esempio vedere come ci si comporta, cosa vuol dire essere contenti o o arrabbiati, ecc.) , semplificarli in maniera esasperata e, in tale forma frammentata farli entrare, piano piano, subdolamente, ad uno ad uno, all’interno dell’Io svuotato e impoverito dall’automutilazione.

Ci sono molti altri accorgimenti per abbassare il livello di complessità della convivenza con i pazienti (v. il mio lavoro “Dieci anni di attività cognitive in comunità terapeutica“, nella sezione PUBBLICAZIONI di questo sito), muovendosi in uno stretto corridoio tra due rischi contrapposti: quello di fare questo lavoro in maniera debole e parziale che peggiora l’assopimento delle funzioni e quello di farlo troppo o intempestivamente, creando delle condizioni perversamente patogene, che configurerebbero una vera malpractice! Qualcosa che evocherebbe i campi di sterminio o i gulag o la tortura psicologica.

Se invece, dopo qualche necessario aggiustamento, indoviniamo entità, tempi e modi dell’inoculazione, il materiale estraneo introdotto costringe l’Io assopito e impigrito a “fare il suo mestiere”, a risvegliarsi per organizzarlo e assimilarlo, cioè ad esistere e, se siamo fortunati, a continuare ad esistere anche al di fuori delle condizioni da noi create.

L’effetto visibile di questo, quando si verifica, è un miglioramento sincronico e globale di tutto il funzionamento mentale, con aumento della relazionalità, della critica, del realismo, della consapevolezza, della capacità di ironia, e così via.

Negando o non richiedendo le funzioni superiori dell’Io, l’Io si attiva… Come vogliamo chiamare questo processo? Situazione assurda? Paradosso? Ma è la realtà della terapia psichiatrica.

 

IN CONCLUSIONE: proteggere vuol dire far lavorare, per lunghi periodi, la testa, il corpo e i sentimenti del paziente, senza chiedergli di essere l’autore o il titolare di quello che fa.

 

Va tenuto presente che quella che chiamiamo “protezione” è la prima parte di un processo unico, che comprende una seconda parte inscindibile dalla prima, che, più propriamente, dobbiamo chiamare “stimolazione”.

E’ necessario, ovviamente, che qualcuno, meglio se è un gruppo, abbia in mente il piano dell’opera e gestisca tutto il processo.

E qui casca l’asino!

Sì, perché, tornando al leitmotiv di questo blog, siamo costretti a constatare ancora una volta che, di solito, nel mondo psichiatrico, le cose veramente utili sono fatte poco e male e che spesso, anzi, ne viene teorizzato il contrario!

Il motivo è che anche gli operatori sono recalcitranti ad operare “a livello zero”, almeno tanto quanto i pazienti sono restii a operare a livelli alti, vale a dire che, come tutte le persone “normali”, non sopportano di non impiegare la logica comune dove non va impiegata. Non accettano mai, neanche per periodi limitati e strumentalmente, la mancanza di senso e di relazionalità forte, anche e soprattutto quando queste obiettivamente non ci sono!

E vedono o costruiscono significati e relazioni inesistenti, proiettando materiale proprio, come nel Reattivo di Rorschach: non volendo passare attraverso una pazzia controllata (il livello di funzionamento zero), ingannano se stessi (con conseguenze personali anche gravi) e bloccano tutto il processo terapeutico.

Ma questo apre un altro discorso, che sarà oggetto delle prossime puntate, insieme ai rimedi (altri cavalli di Troia, in senso contrario!) per contrastare il fenomeno.

 

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