Proteggere e comunicare in terapia psichiatrica

 

PROTEGGERE E COMUNICARE IN TERAPIA PSICHIATRICA

di Giandomenico Montinari

 

pubblicato su “QUADERNI ITALIANI DI PSICHIATRIA”, Vol. XXVI, marzo 2007

 

RIASSUNTO

 

La terapia e la riabilitazione psichiatrica, nell’occuparsi dei sintomi e dei comportamenti patologici presentati dai pazienti, sembrano tenere poco conto delle difficoltà sottostanti, che consistono, soprattutto, in gravi difficoltà nel definire e contestualizzare le proprie esperienze e nel gestire i propri confini. L’atteggiamento degli operatori psichiatrici, non cogliendo adeguatamente la problematica reale dell’utenza, appare spesso improntato a un rispecchiamento di stili patologici, a una collusione o addirittura a una forma di condivisione inconsapevole e incontrollata di esperienze anomale. In pratica diventa, come si dice, “fusionale” e, comunque, iperprotettivo.

I malati, per difendersi dalla sovrastimolazione che deriva loro dall’incapacità di comprendere adeguatamente il senso di ciò che li circonda e di controllarne la complessità, rispondono con modalità autoprotettive, volte a frammentare arbitrariamente la loro esperienza e ad escluderne intere porzioni, includendo il resto in un mondo globale e indifferenziato, volto a escludere qualunque forma di difformità. Tali modalità tendono a peggiorare la comprensione e il controllo del proprio mondo e ad alimentare un circolo vizioso, che alla lunga crea o aggrava una progressiva e ingravescente disabilità.

La riabilitazione consiste nel tentativo di interrompere tale spirale distruttiva e di fornire ai pazienti gli strumenti (cognitivi, emotivi, espres[1]sivi, psicomotori, sociali, ecc.) per controllare meglio e padroneggiare ciò che li circonda, riappropriandosi di porzioni di realtà esterna ed interna, che essi, non capendola adeguatamente, tenderebbero ad escludere o a negare.

La protezione va quindi intesa, prima di tutto, come un aiuto a capire le cose e a rifare esperienze inconsuete, divenute estranee, così come la comunicazione è un aiuto a porre limiti alla fusionalità e al trabordare di emozioni incontenibili quanto incomprese.

 

Parole chiave: riabilitazione psichiatrica, protezione, difficoltà cognitive, schizofrenia

 

SUMMARY

 

When considering the symptoms and pathological behaviour presented by patients, psychiatric workers seem to take little account of the underlying problems that consist of, above all, in serious difficulties in defining and contextualizing their own experiences and managing their limits.

Their attitude often doesn’t adequately confront the real problems of patients and resembles a mirror image of pathological styles, a collusion or even a form of unwitting and unheeded sharing of abnormal behaviour. This attitude becomes symbiotical with the patients and aften overprotective.

The sick, to defend themselves from the over stimulation that derives them from their incapacity to adequately understand the sense of what surrounds them and to register it in its complexity, respond in a self-protective manner, at times alternating to fragment and exclude or to globalize and to include whole parts of their existence. Such a manner tends to worsen comprehension and control of their own world and fuels a vicious circle, that in the long term creates or progressively aggravates the disability.

Rehabilitation consists of an attempt to interrupt this destructive downward spiral and to supply the patient with the instruments (cognitive, emotive, expressive, psycho-motive, social etc.) to be able to control better and to take possession of what surrounds them, re-appropriating a part of reality that they themselves, not adequately understanding it, would tend to exclude or deny.

            Protection thus comes agreed, above all as an aid to understanding things and to renew experiences that had become unfamiliar, and communication is a help to place limits on confusion and to hem in emotions that are irrepressible as much as unrecognized.

 

Key words: psychiatric rehabilitation, protection, cognitive impairment, schizophrenia

 

 

 

Proteggere e comunicare sono generalmente considerati tra i primi comandamenti del decalogo del buon operatore psichiatrico, soprattutto nel lavoro terapeutico – riabilitativo a lungo termine.

Ed è giusto.

In effetti i pazienti psichiatrici hanno un bisogno vitale (cioè, letteralmente, correlato con la sussistenza) che qualcuno eserciti in loro favore queste due funzioni basali, senza le quali la loro qualità della vita scenderebbe a livelli poco più che vegetativi e spesso, come ben sappiamo, anche al di sotto della soglia di sopravvivenza.

Eppure questi due concetti, proteggere e comunicare, sono tra i più fraintesi e abusati del mondo della psichiatria.

Il paziente, oggi, non viene più abbandonato a se stesso, come succedeva una volta: è quasi sempre oggetto di attenzioni e di cure, che sono, come minimo, diligenti, ma il più delle volte prestate con spirito di dedizione, con zelo e anzi con autentica affettività.

Però c’è da chiedersi come mai “proteggere” diventi accudire anche fisicamente il paziente e deresponsabilizzarlo come se fosse un bambino. E come mai, parallelamente, “comunicare” diventi instaurare un rapporto stretto, intriso di non verbalità e quindi pieno di non-detti, carico di emotività e cioè, in definitiva, un rapporto del tipo che si suole chiamare fusionale o simbiotico.

In ambedue i casi si arriva ad una relazione operatore – paziente, paragonabile, impropriamente, a quella tra una madre e un bambino molto piccolo. Dico “impropriamente” perché ho dei grossi dubbi che, nella realtà della crescita del bambino, esista mai una relazione così simbiotica e fusionale come quelle che vengono costruite all’interno della prassi psichiatrica.

Tra parentesi, il fatto che due processi (comunicare e proteggere), in partenza diversissimi, confluiscano alla fine nello stesso atteggiamento “regressivo” (che per di più, appunto, non è forse mai realmente esistito in quanto tale nella storia di ciascuno di noi, sia operatori, sia pazienti), rappresenta a rigore una sdifferenziazione, che dovrebbe già di per sé insospettirci e darci una misura del grado di semplificazione e di riduttività al quale siamo esposti in questo lavoro.

Evidentemente non riusciamo a fare a meno di accompagnare i pazienti nei loro modi di essere, diciamo così, difensivi, quelli che sono alla base dei loro comportamenti sintomatici e dei quadri psicopatologici che essi presentano; e parallelamente non ci accorgiamo di perdere, poco alla volta, la capacità di leggere la comunicazione patologica in termini strutturali, di cornice, prima che di contenuto (come fanno i non-addetti-ai-lavori) e quindi, in definitiva, di perdere contatto con realtà del nostro lavoro.

Il problema della comunicazione psicotica non deriva da quello che il paziente dice o che comunque, in qualche modo, manifesta: i temi, i contenuti, i racconti potrebbero quasi sempre, essere in sé adeguati e condivisibili. Non lo è la loro contestualizzazione, cioè la collocazione spazio – temporale, l’attribuzione di azioni e sentimenti al soggetto giusto, l’inserimento in una successione logico – cronologica corretta. I contenuti di per sé non sono né giusti né sbagliati, come non lo è un’immagine che viene usata come metafora. Evocare la figura di Gesù Cristo o di Napoleone o dei marziani non è un’operazione assurda: tutti possiamo usare queste immagini all’interno di similitudini, per illustrare dei concetti o far condividere degli stati d’animo, purché la contestualizzazione sia adeguata, per esempio in affermazioni come “…vorrei potermi sentire un Napoleone…” o simili. Quello che rende delirante e assurda un’immagine o un’atmosfera è proprio la mancanza dello sforzo di costruire la cornice spazio-temporale e logica della similitudine, è la perdita del “come se”, che rende l’espressività psicotica assimilabile a una specie di metafora abortita.

Se vogliamo quindi capire la realtà dei pazienti meglio di quanto facciamo di solito, non è sui contenuti che dobbiamo incentrare la nostra attenzione, ma sulla loro mancata organizzazione strutturale e sulla loro vacillante contestualizzazione. Anche tutti gli altri loro comportamenti, a prima vista incomprensibili e assurdi, derivano da problemi di questo tipo e cioè dalle gravi difficoltà che essi incontrano nel gestire complessivamente, oltre certi livelli, i dati dell’esperienza e talvolta addirittura nel produrli.

 

 

 

Le peculiarità dell’esperienza psicotica

 

L’ostacolo fondamentale che essi incontrano è, a mio avviso, la difficoltà di rappresentarsi la realtà nella sua interezza: di fronte alla sovraesposizione a stimoli per loro eccessivi (legati alla richiesta ambientale di conciliare istanze per loro inconciliabili), rispondono riducendo l’esposizione stessa attraverso a una serie di espedienti, che inizialmente ottengono l’effetto desiderato, ma che alla lunga, a dispetto delle intenzioni difensive in base alle quali vengono adottati, aggravano in realtà i problemi.

Il più frequente di tali meccanismi è la frammentazione dell’esperienza: essi rinunciano a integrare ambiti diversi, per esempio emozioni e razionalità, mondo interno e mondo esterno, esigenze proprie ed esigenze dell’ambiente, ecc. e isolano o uno solo o pochissimi canali di percezione / comunicazione, dando corpo a quell’insieme di comportamenti patologici che giustamente vengono riuniti sotto la dicitura di “schizofrenia” (traducibile appunto come “mente scissa” o qualcosa del genere).

I problemi nascono dal fatto che tale scissione non avviene armonicamente, secondo criteri che coniughino l’aderenza alla realtà dei singoli frammenti e la possibilità di ricostruire integralmente la rappresentazione dei fatti e delle cose; l’esposizione dovrebbe, sì, essere attenuata, dosata, ridotta tramite la scomposizione (e il conseguente contenimento della complessità), ma, come in una successione di fotogrammi, la realtà dovrebbe conservare la sua fisionomia complessiva e la sua interezza. Invece, nelle strategie difensive di quasi tutti i pazienti, la frammentazione avviene in maniera, per così dire, impropria, perché le parti vengono escluse arbitrariamente (in base all’emotività o ai problemi del momento) e in maniera diversa da una volta all’altra, sommando esclusioni a esclusioni in un quadro finale non più riconoscibile, nel quale ampie porzioni dell’esperienza vengono perse del tutto. Il risultato è simile a quello ottenuto con una macchina fotografica dotata di un pessimo obiettivo, che esclude quasi tutte le parti troppo o troppo poco illuminate e restituisce poche chiazze chiare e visibili, di difficile lettura.

In definitiva i pazienti escudono dalla loro consapevolezza e dalla loro stessa vita amplissime porzioni del mondo interno ed esterno, partendo da tutte quelle parti che, nei vari momenti o periodi, creano dei problemi di compatibilizzazione col nucleo più profondo del sé, e fanno sì che anche l’immagine finale, cioè la rappresentazione della realtà, ne venga gravemente e irrimediabilmente alterata. Questa è la base dei fenomeni che Freud chiamò “rimozione”, “inconscio”, “conflitto” ecc., che, ovviamente, nei pazienti psicotici hanno una ampiezza, una visibilità e delle conseguenze immediate molto più macroscopiche di quanto non avvenga nelle “nevrosi” freudiane. E’ facilmente ipotizzabile e in armonia con la pratica clinica quotidiana che la perdita di molte abilità (cognitive, sociali, psicomotorie, ecc.) sia, almeno in buona misura, la conseguenza di tali reiterate esclusioni, piuttosto che una diretta conseguenza della malattia.

 

L’altro importante meccanismo difensivo della malattia è la globalizzazione dell’esperienza, cioè la perdita progressiva della capacità di gestire i dettagli e i confini della realtà, nei loro intricati e contraddittori rapporti, sostituiti con icone (immagini, emozioni, atmosfere) indefinite ed elementari, di solito tratte dal repertorio interno del  paziente. Pertanto timori, stati d’animo, idee, ricordi propri prendono il posto delle percezioni e della loro corretta lettura.

La malattia induce quindi a compiere contestualmente operazioni di segno opposto, di frammentazione e di globalizzazione o, se vogliamo, di “esclusione” e di “inclusione”, che in sostanza si traducono nell’attribuire alle poche parti dell’esperienza non ancora scisse il significato di espressione della realtà nel suo insieme, tenendo presente, per di più, che queste parti non provengono affatto dalla loro esperienza della realtà esterna, ma dal proprio mondo interno.

Queste due operazioni mentali producono, sì, una ridotta esposizione agli stimoli, ma lo fanno a spese di una percezione dell’esistenza nella sua interezza e complessità. In sostanza fanno perdere al paziente il contatto con la realtà del mondo e, limitando sempre di più la sua capacità di riconoscerla e gestirla, lo rendono progressivamente sempre più inabile a farlo, in un circuito chiuso infernale che alla fine risulta inarrestabile e praticamente irreversibile.

Stessi meccanismi autoprotettivi i pazienti applicano alla gestione della relazionalità: essendo disturbati dall’“altro” e dalle sue istanze, che, nonostante tutti gli sforzi di omologazione, permangono inconciliabili con le loro esigenze di immutabile omogeneità interna, distruggono il concetto stesso di alterità: si costruiscono un mondo in cui vige o il distacco non comunicativo o la fusione tra gli individui, una sorta di concezione “sinciziale”, in cui una finta e apparente diversità viene recuperata all’interno di un magma indistinguibile, che di fatto, partendo dal proprio sé più profondo, ingloba tutto e tutti. Anche in questo caso, i meccanismi determinanti sono: esclusione di ciò che non è immediatamente assimilabile e globalizzazione destrutturante.

Il problema che il riabilitatore deve porsi è stabilire quanto tutto questo è legato alla malattia e deriva direttamente da schemi percettivi, cognitivi e psicomotori “biologicamente” alterati e quanto invece è il risultato di “meccanismi di difesa”, simili a posizioni “antalgiche” di altri ambiti della medicina, cioè, in definitiva, cattive abitudini almeno in parte contrastabili e correggibili. Sinceramente non lo so. Voglio, anzi devo, come tutti noi, ipotizzare un fifty-fifty, dalle proporzioni variabili da un caso all’altro e da un momento all’altro.

 

 

Implicazioni per il lavoro riabilitativo

 

In quest’ottica, il lavoro riabilitativo a lungo termine delle psicosi si identifica con un mantenere in essere nei malati funzioni menomate, ma non ancora del tutto sopite, come la capacità di gestire la complessità e la diversità, passando per il recupero, la ricostruzione, l’imposizione al soggetto, nei tempi e modi dovuti, delle parti impropriamente escluse o incluse, e una loro gestione più adeguata e funzionale.

Di solito questo lavoro di rettifica e di ripristino, che – si badi bene! – da parte di famigliari e pazienti non ci viene né realmente richiesto, né, tanto meno, facilitato, viene svolto poco e in maniera poco consapevole dalla maggior parte degli operatori psichiatrici, perdendo di vista il fatto che esso costituisce anche, se non soprattutto, una misura autoprotettiva per chi la mette in atto.

La maggior parte di noi, psichiatri, psicologi, educatori, infermieri, ecc., rinuncia a qualunque progetto a lungo termine e, implicitamente, a qualunque difesa preventiva, a qualunque precauzione: semplicemente va dietro ai pazienti, limitandosi a tentare di contenerne – tardivamente – le manifestazioni più gravi e patologiche, o quelle più rischiose. Nel far questo, cioè nel subire l’iniziativa dei pazienti, anziché controllarla con adeguate procedure preventive, entriamo, gradualmente e senza accorgersene, nella visione del mondo dei pazienti, quella per cui l’ “uno” e “l’altro”, in fondo, sono la stessa cosa, mondo interno e mondo esterno coincidono, il principio di non-contraddizione non esiste o è facilmente aggirabile (cioè “fare” e “non-fare” sono equivalenti ed egualmente privi di senso); col risultato di adottare, alla fine, una logica, in cui 1 + 1 = 1 e in cui il “2” (due diverse posizioni, due diversi soggetti, due modi opposti, ma non inconciliabili, di vedere le cose, ecc.) è un concetto astruso, di difficile applicazione, che spesso addirittura non esiste neanche come possibilità.

Molti teorizzano tale abdicazione al proprio ruolo riabilitativo come funzionale e quindi come terapeutica. Sicuramente questo modo di essere e di pensare rende ragione del clima, diciamo così, rilassato, “astensivo”, in cui si sviluppano molte terapie, a cominciare da quelle comunitarie e da quelle psicoterapeutiche ambulatoriali pubbliche e private: tolleranza diffusa, accettazione di ogni forma di bizzarria, affettività innaturale e forzata, acquiescenza verso qualunque istanza patologica. Atteggiamento che, inizialmente, sembra pagante: smettendo di opporsi alle richiesta patologiche dei pazienti, la vita del gruppo si distende, le tensioni sembrano attenuarsi, la convivenza diventa addirittura piacevole e gratificante. Ma, alla lunga, tra gli operatori insorgono contrasti incomprensibili e una morbilità e una sinistrosità “accidentale” inusuali e impreviste, il turn over cresce e la demotivazione dilaga…, mentre tra i pazienti aumentano gli agìti e le situazioni incontenibili.

 

 

Che fare?

 

Compito di ogni buon stratega è individuare l’avversario (rappresentato dalla malattia) e valutarne le forze. Questo anzitutto in un’ottica difensiva, per salvaguardare noi stessi, dato che è sempre in vigore il vecchio detto latino “Primun vivere, deinde philosophari”. Nel nostro campo si tratta di un compito straordinariamente difficile, perché l’ “avversario” ci sfugge, si camuffa, e, come gli alieni di certi film di fantascienza o, peggio, come i virus (sia biologici, sia informatici), si nasconde nelle pieghe della nostra mente e si nutre delle nostre stesse energie.

Soprattutto nella convivenza a lungo termine con i pazienti psichiatrici (residenziale e ambulatoriale), noi sistematicamente dimentichiamo che le operazioni distruttivo – difensive dei pazienti sono strutturali e operano ai margini o al di fuori dell’orizzonte percettivo di una persona “normale”: come gli ultrasuoni o i raggi ultravioletti, non vengono né sentiti, né visti da un occhio o da un orecchio non assistiti da strumenti predisposti a percepirli, e, aggirando le difese della persona stessa, esercitano subliminarmente la loro azione distruttiva.

Per fare un esempio, il paziente di comunità che chiede una sigaretta a un visitatore, dandogli subito del tu, rendendosi simpatico e gradevole ed esternandogli immediatamente i suoi problemi più intimi, non lo fa né per accogliere cordialmente l’ospite a nome del gruppo, né per trarre qualche beneficio concreto, come una sigaretta in più, né per verificarsi in una relazione per lui inedita.

Lo fa semplicemente per difendersi dal nuovo e dal diverso. La strategia che, in maniera  intelligente e spregiudicata, mette in atto per disinnescarli, comporta una subdola operazione di scardinamento delle regole della relazionalità e della logica e tende a imporre una visione del mondo in cui si è tutti parenti o amici di vecchia data e non si può non di soddisfare i bisogni elementari (di solito “orali”) dell’altro: come si fa a non rispondere alla battuta, dandogli del tu come a un bambino e a non dargli la sigaretta! Eppure questa richiesta simpatica e innocente (dal punto di vista dei contenuti) agisce in realtà sulle strutture profonde dell’interlocutore e, nell’intenzione, non è che la testa di ponte di una “forza di invasione”, chiamamola così, di ben altra portata, difensiva, sì, in partenza, per chi la mette in atto, ma capace di alterare gravemente, alla lunga, lo stesso equilibrio psichico delle persone circostanti.

Temo, anzi sono certo, che pochissimi colleghi si rendano conto di questo e lo desumo dal fatto che quasi tutti si preoccupano molto di più dei contenuti della relazione col paziente (discorsi, stati d’animo, sintomi, richieste), anziché della cornice (logica, strutturale, situazionale in senso lato) in cui i contenuti stessi vengono espressi, cornice che è quella suddetta, precaria o inesistente, in cui non vige la logica “normale”, in cui cioè la logica psicotica dilaga senza limiti.

Le conseguenze di questo sono numerose e arrivano molto lontano.

Consistono per esempio nel prendere alla lettera le affermazioni e le richieste dei pazienti senza chiedersi quali parti del problema sono state da loro “dolosamente” escluse e quale è lo sfondo, personale e ambientale, in cui si iscrivono e da cui scaturiscono. Tutti gli operatori, soprattutto se stanchi, distratti o “in altre faccende affaccendati”, sono gravemente esposti al rischio di adottare acriticamente la logica decontestualizzante dei pazienti: dallo psichiatra che prende per buono e riscontra farmacologicamente ogni minimo sintomo, allo psicologo che interpreta affermazioni paradossali (“da domani voglio andare a lavorare!”) come forme di iniziale autonomia, all’educatore che ritiene che il tentativo di fuga o la richiesta di uscire siano dettati dalla ricerca di una maggiore libertà… Quasi tutti sembrano dimenticare, di fatto, che le scale di valori dei pazienti sono molto diverse e praticamente opposte a quelle che vigono normalmente e richiedono letture diverse dei fatti e dei comportamenti: chi trasgredisce alle regole lo fa non per spirito di indipendenza, bensì per provocare una risposta concreta, tangibile e rassicurante, che, più delle regole (troppo astratte per il suo debole sistema di simbolizzazione e quindi troppo “trasgredibili”) soddisfi il suo bisogno di protezione; così chi tenta di scappare lo fa per essere trattenuto più energicamente e chi cerca di aprire una porta lo fa per sincerarsi che sia ben chiusa; così come chi concepisce progetti grossolanamente irrealistici vuole semplicemente vederli fallire.

 

 

Considerazioni conclusive

 

Cosa vuol dire allora, in termini, per l’appunto, strutturali, comunicare e proteggere?

Spogliamoci dagli stereotipi che

 

1) “comunicare” voglia dire scambiare parole e sentimenti e che

 

2) “proteggere” significhi preservare i pazienti dalle difficoltà del mondo, tenendoli lontani da esse, fisicamente, come Sidharta prima della fuga dal palazzo paterno, quando era ancora un principino ignaro.

 

Lasciamo queste convinzioni ai non-addetti-ai-lavori: per loro un atteggiamento carico di affettività in un ambiente ovattato e fuori del mondo è quello che cura qualunque male.

Noi sappiamo che questo è vero, forse, per altri mali, ma non per la psicosi.

Abbiamo constatato più volte che:

 

1) l’esposizione a un rapporto interpersonale (tanto più se duale) troppo intenso e carico di emotività, senza filtri e senza mediatori, è ciò da cui il paziente si difende col suo comportamento patologico: se proposto o imposto troppo energicamente, ha un ulteriore effetto destrutturante e facilita l’insorgere di episodi acuti.

 

Così sappiamo che

 

2) l’assenza di stimoli esterni legata all’iperprotezione e all’isolamento riduce sempre di più la capacità di confrontarsi con la complessità del reale e, parimenti, facilita fenomeni regressivi ed agìti.

 

Quello che dobbiamo fare è, prima di tutto, imparare a lavorare sulla stessa lunghezza d’onda dei pazienti e, come loro, agire non sui contenuti, contingenti e mutevoli, ma sulle condizioni strutturali della comunicazione e della comprensione del mondo, cercando, ovviamente, di ripristinarle per quanto è ancora possibile.

Anche gli strumenti devono essere gli stessi dei pazienti, ma usati specularmente: bisogna contrapporre una scomposizione ordinata e sistematica (e anche un po’ pedante) alla globalità indifferenziata e, per altro verso, una visione complessiva alla frammentazione riduttiva. Per restare nella similitudine ottica, dove il paziente esclude parti della scena da fotografare (perché troppo o troppo poco illuminate), dobbiamo cercare di recuperare le porzioni mancanti, modulando settorialmente l’esposizione; dove egli usa un grandangolare estremo (tipo fish eye, che dà un’immagine a 360 gradi, ma deformata e di fatto irriconoscibile), dobbiamo imporre una serie di singoli fotogrammi aderenti agli oggetti.

Per questo è molto importante saper spezzettare il mondo, scomporre la realtà esterna ed interna (situazioni, stati d’animo, relazioni, problemi, ecc.) dei pazienti in porzioni piccole, comprensibili, facilmente assimilabili, non rigettabili, da condividere e affrontare assieme al curante (sia esso riabilitatore, socioterapista, psicologo, terapista espressivo o terapista occupazionale). Tutte le immagini parziali vanno poi integrate spazio – temporalmente, messe in successione, accostate, per ricomporre gradualmente il quadro complessivo in una forma accettabile, in grado di non suscitare nel paziente il rigetto per eccesso di esposizione alla complessità.

La nostra funzione principale è proprio quella di mantenere il senso di questa complessività percettivo – strutturale, consapevoli, come detto sopra, di dover operare senza la richiesta esplicita dei pazienti e, talvolta anche contro la loro volontà.

Lo strumento, il mediatore di questo lavoro sulle strutture è tutto quello che si fa (o si dovrebbe fare) in terapia psichiatrica, che, lungi dall’essere, come si crede troppo spesso, una serie di interventi a se stanti (medico, psicologico, riabilitativo, ecc.) o, peggio, un semplice intrattenimento da villaggio turistico, va compreso nella sua reale essenza e nella sua complessità.

Tutti gli interventi terapeutico – riabilitativi che si fanno, al di sotto delle loro specificità e degli obiettivi parziali che si propongono, lavorano appunto attraverso una scomposizione / ricomposizione della realtà che li circonda: dalla comprensione e definizione di stati d’animo e idee proprie e altrui, alla attribuzione di senso alla convivenza e alle sue regole, alla riacquisizione di abilità cognitive, sociali, psicomotorie sopite, al recupero del senso estetico e del gusto del creare, al confronto con porzioni “dimenticate” dell’esperienza, con punti di vista inediti, con “dettagli” trascurati della loro vita.

 

Ne deriva che

1)    “comunicare” non vuol dire né effondersi in manifestazioni affettive e fusionali col paziente, né dar vita a estenuanti colloqui per indurlo ad aprirsi e ad esprimersi, ma, al contrario, creare le premesse perché venga ripristinato il concetto di “alterità”: significa quindi mettere dei limiti alla fusionalità, creare prima una distanza strutturata e mediata da oggetti (tecniche, orari, ruoli, funzioni, ecc.) e poi una prossimità;

2)    “proteggere” non vuol dire preservare il paziente dal mondo, ma esporlo in maniera modulata e graduale (ma autentica e con modalità per lui accessibili) all’esterno: uno scomporre la realtà in pixel e poi un ricomporla, come in una scannerizzazione computerizzata; un aiuto a capire e a rifare esperienze divenute inconsuete.

 

Non so quanto di questa consapevole e ricercata artificialità, non scevra da aspetti ossimorici o paraddossali (che porta a distanziare per comunicare e ad esporre per proteggere), sia presente nella nostra quotidianità di lavoro, ma penso che essa debba essere assimilata da parte nostra come la tecnica di un pianista o di un attore, che sembrano (e alla lunga diventano effettivamente) “spontanei”, ma solo dopo una quantità infinita di esercizi, che di spontaneo non hanno mai avuto neanche l’ombra.

 

Bibliografia

 

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